martedì 23 dicembre 2008

Buon Natale alle donne e agli uomini di buona volontà


Quest'anno per fare i miei più cari auguri di Santo e Felice Natale a tutti , ho scelto il presepe che rappresenta le nostri radici.E le nostre radici sono cristiane alla faccia di chi ce le vuole tagliare e renderci delle vere nullità...dei srvi sciocchi da disprezzare
Buon Natale a tutti.Il 25 nasce il Dio dell'amore, del perdono, della solidarietà che ci illumina la vita e ci indica la strada per vivere sereni e colmi di grazia

venerdì 31 ottobre 2008

Purcell - Dido's lament



Bellissimo questo Lamento di Didone tratto dall'opera Enea e Didone di Henry Purcell
Fra i grandi principi della musica barocca, di Henry Purcell si hanno scarse notizie biografiche. La sua stessa opera è sprofondata nell’oscurità per lungo tempo e solo nel XX secolo è stata riscoperta contribuendo a donare nuovo vigore alla scuola compositiva britannica.E stato un compositore poliedrico e molto attivo.
Di lui conoscevo essenzialmente la stupenda The Fairy Queen.Eccone un brano.Un grande Purcell non c'è che dire, merita di essere menzionato tra i grandi del barocco,non solo inglese

domenica 12 ottobre 2008

Nucleare, quel sogno segreto che tormentava Paul Newman

Negli ultimi anni Paul Newman aveva un pallino che l’ha gettato in disgrazia. Era schiavo di una mistress? No, negli Usa fanno questo e altro. Possedeva una flottiglia di SUV superinquinanti? Nemmeno. L'attore era solo un vigile ma convinto sostenitore del nucleare.

Paul Newman, che è morto qualche settimana fa, si è portato un segreto nella tomba, qualcosa che lo aveva gettato in disgrazia a Hollywood. Aveva una mistress segreta? No, questo non avrebbe infastidito nessuno. Possedeva una flottiglia di SUV o era schiavo degli hamburger di McDonald? Nemmeno. Paul Newman era semplicemente un vigile ma sempre più convinto sostenitore dell’energia nucleare. Lo spostamento di Newman da una variegata serie di posizioni ambientaliste all’appoggio del nucleare iniziò nel 1992, quando interpretò la parte del generale Leslie Groves, il supervisore del Progetto Manhattan, nel film “Fat Man & Little Boy”. La storia si ispirava a “The Making of the Atomic Bomb”, il libro di Richard Rhodes che nel 1988 vinse il premio Pulitzer per la nonfiction novel (l’autore aveva al suo attivo “Nuclear Renewal”, un altro testo dedicato al revival del nucleare).

Rhodes e Newman vivevano entrambi nel Connecticut e diventarono amici. Negli anni successivi parlarono dell’energia nucleare, e Newman, gradualmente, si fece convertire a questa tecnologia. Grazie a Rhodes, Newman ebbe modo di incontrare e conoscere Denis Beller, professore di ingegneria dell’Università del Nevada, che era anche un esperto in materia. “Tutte le volte che ho incontrato Paul Newman mi sembrò una persona dalla mente aperta e allo stesso tempo indagatrice – ricorda Beller – e tutte le volte che venne in Nevada nel 2002 visitò l’Harry Reid Center per gli studi ambientali, dove i membri della facoltà gli mostrarono le ricerche sulla trasformazione delle scorie nucleari. Parlarono anche dell’idea di lanciare le scorie nel Sole che non era realmente praticabile. La visita finì con un viaggio alle Yucca Mountain, dove Kevin Phillips, il sindaco della vicina Caliente – una cittadina che si trovava a sole 50 migli in linea d’aria da dove venivano trasportate le scorie – disse a Newman che lui non si opponeva al progetto. Più tardi Newman mi avrebbe confessato: ‘E’ la cosa più impressionante che abbia mai visto’”.

L’anno dopo, Newman e sua moglie, Joanne Woodward, organizzarono una colazione con un dibattito sull’energia nucleare, ospitando politici di primo piano di Washington e i pezzi da novanta della stampa newyorkese nel loro appartamento sulla Quinta Strada, di fronte a Central Park. Sia Beller che Rhodes aiutarono Newman a preparare l’evento. In seguito Beller presentò l’attore ad altri due sostenitori del nucleare, Susan Eisenhower – l’Istituto Eisenhower ha promosso la ricerca sul nucleare come una parte dell’eredità di “Atoms for Peace”, il programma creato dal presidente Dwight Eisenhower – e Al Trivelpiece, l’ex direttore del laboratorio nazionale di Oak Ridge. L’istituto Eisenhower contribuì ad organizzare altre due serate nell’appartamento di Newman. Ma per una figura pubblica come lui, specialmente quando sei collegato a Hollywood, era dura sostenere il nucleare.

Per lungo tempo Newman aveva trasferito i profitti dei prodotti alimentari biologici con il suo marchio – lo “Newman’s Own – nell’omonimo fondo caritatevole. I suoi manager lo avvertirono che diventare un supporter troppo accanito del nucleare avrebbe danneggiato questa ricerca fondi. “Mi disse che molta gente aveva iniziato a boicottare i ristoranti dove venivano serviti i suoi prodotti – ricorda Beller – ed era convinto che avesse fatto qualche dichiarazione troppo esplicita sul nucleare il suo business sarebbe fallito”.

Newman aveva iniziato a manifestare il suo interesse verso il nucleare insieme all’altra sua grande passione, le corse automobilistiche. Dopo aver partecipato come pilota a una gara della Indy 500 nel film “Winning”, del 1969, iniziò a gareggiare assiduamente. Riuscì ad arrivare tra i primi cinque a Daytona e a Le Mans, e vinse quatto titoli nazionali dal 1976 al 1986. A quei tempi conobbe e divenne amico di uno dei suoi sfidanti, Eddie Wachs, il proprietario della E.H. Wachs Inc., che aveva partecipato alla costruzione di numerosi reattori e aveva aiutato a ricostruire il TVA Browns Ferry Unit I, che ha riaperto i battenti nel 2007.

Nel 2002 Newman e Wachs fondarono la “Newman Wachs Racing”, un team di auto da corsa, con l’intento di favorire la promozione dell’energia nucleare attraverso campagne di comunicazione pubblica. L’idea era di mostrare i vantaggi di un potenziale utilizzo del nucleare per l’industria automobilistica. Due anni dopo, l’Istituto per l’Energia Nucleare, riconoscente dei loro sforzi, sponsorizzò una macchina da corsa con il messaggio “Nucleare. Una energia pulita” che ha vinto la gara di apertura del “Champ Car Atlantic 2008”. La macchina e la sua crew da allora girano nelle scuole di ingegneria del Paese per incoraggiare i giovani a intraprendere la ricerca nucleare.

Negli ultimi anni Newman era diventato un sostenitore molto più attivo del nucleare. Una delle questioni più controverse nell’area di New York è il tentativo portato avanti dai gruppi ambientalisti di chiudere il generatore nucleare di Indian Point, che garantisce il 20% di elettricità della Grande Mela e della contea di Westchester. Uno dei leader di questo movimento è Robert F. Kennedy Jr., d’accordo con l’ex vicepresidente Al Gore e le star del cinema che affollano le copertine di “Vanity Fair” e si schierano puntualmente contro il nucleare. “Paul mi disse che Kennedy Jr. aveva cercato per molto tempo di reclutarlo nella gilda hollywoodiana schierata contro l’Indian Point – dice Beller – ma alla fine si era arreso”.

Nel maggio del 2007, Newman fece un giro all’Indian Point e, durante un’affollata conferenza stampa, disse: “Non ho mai visitato una Base dell’esercito o della marina che sia più protetta di questo posto. L’impegno nella sicurezza è evidente”, aggiungendo che il generatore forniva elettricità a milioni di persone senza emettere gas nocivi per l’ambiente. Le sue dichiarazioni non hanno avuto grande risalto sulla stampa.

Chiunque abbia un briciolo di intelligenza e di obiettività sa che la nostra Nazione dipende troppo dal petrolio, che le forme di energia rinnovabili sono in grado di soddisfare solo una piccola parte del nostro fabbisogno, e che il nucleare offre una alternativa “pulita” con minime ricadute sull’ambiente. Paesi come la Francia, che hanno già completato la loro transizione nel nucleare, oggi godono di enormi benefici economici. Quando nel corso della sua vita Newman ha fatto outing, ora confessando di essere un dislessico, ora un alcolista, o un omosessuale, Hollywood e la stampa liberal lo hanno glorificato, esaltando il suo candore e il suo coraggio. Tuttavia, schierarsi dalla parte del nucleare è un affare molto più pericoloso. Che certamente non vedrete mai sulla copertina di “Vanity Fair”.

Tratto da "National Review", ottobre 2008 da L'Occidentale.it
Voglio ricordare così un grandissimo del cinema, l'ultimo divo di un mondo che ha perso ogni glamour ed è diventato una catena di montaggio per acefali palestrati.
Invito chi vuole a leggere questa intervista pepata di Oriana Fallaci al bellissimo Paul :imperdibile.

martedì 16 settembre 2008

Una Storia Disonesta - Stefano Rosso

e se ne andato anche lui, Stefano Rosso un irriverente menestrello mai banale...ironico, dissacrante, sempre bello da ascoltare..bello direi anche impegnativo ecco..che tristezza
Un saluto e che ti si lieve la terra ora che fai il menestrello in cielo e ci guardi con ironia e malinconia da lassù



domenica 14 settembre 2008

Il Novecento «per immagini» di John Phillips

Guardare le foto di John Phillips è come sfogliare un libro di storia. Forse meglio. Perché alcune immagini di questo grande fotoreporter giramondo (nato ad Algeri da madre americana e padre inglese) sono entrate nella coscienza collettiva più di tante parole. Uno tra tutti, il celebre scatto che immortala a Teheran, nel 1943, Churchill, Roosevelt e Stalin, uno scatto "rubato" spacciandosi per funzionario inglese.

Ma Phillips fotografò anche Re Farouk e Re Saud, Tito e i suoi partigiani, Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti. Documentò i conflitti e le scene di pace, il mondo dello spettacolo e quello della strada. Nell'Italia di cui si innamorò, Phillips immortalò i volti di Fellini, Visconti, De Sica, Antonioni, e poi Sophia Loren, De Filippo, Giò Ponti…non manca nessuno, nella sua galleria di ritratti in bianco e nero. Neppure le persone comuni, i bimbi «poveri ma belli» dell'Italia in guerra, i partigiani, i minatori gallesi.

Del resto, cosa potevamo aspettarci da un uomo che girò il mondo al seguito del padre, da Algeri a Parigi, a Nizza, fino a Londra, frequentando amici di famiglia che portavano nomi come André Breton, Man Ray, Kiki di Montparnasse, Isadora Duncan, Gertrude Stein?
Che iniziò a fotografare giovanissimo, esordendo ufficialmente nel 1936, per il «Time», con un servizio da Ascott? E che nel proprio curriculum, come primo servizio all'estero, vanta niente meno che l'Anschluss dell'Austria, da una Vienna occupata dove nel 1938 si recò per conto di «Life» (rivista per la quale lavorò nei vent'anni successivi)?
Un uomo eccezionale, certo. E altrettanto lo sono le sue fotografie – bellissime oltre che di grande valore storico e documentario. La Fondazione Fratelli Allinari, in collaborazione con la John e Annamaria Phillips Foundation e il Comune di Cagliari raccoglie ora molte di queste foto per il pubblico italiano, in una mostra dal titolo «Guerra e Pace. John Phillips testimone del Novecento», allestita al Museo Alinari della fotografia, a Firenze, dall'11 settembre al 26 ottobre. Sono 150 le immagini in mostra, di cui gran parte vintage, una selezione curata da Charles-Henri Favrod che ripercorre l'opera del grande fotoreporter e in qualche modo ne ricostruisce la biografia, accanto alla storia del Novecento. Eventi straordinari sono stati immortalati dalla macchina di Phillips, ma anche personaggi fuori dal comune, come quell'Antoine de Saint-Exupery – scrittore e avventuriero - di cui il fotografo raccontò l'ultima folle missione nei cieli, con un reportage da Alghero, nel 1944.

Phillips si spense nel 1996, dopo una vita vissuta come spirito libero, outsider, testimone oculare e fiducioso di tutto il mondo (dall'Europa all'America del Nord e del Sud, dall'Africa all'Asia) e delle sue tragedie e bellezze, appassionato soprattutto delle storie degli uomini, celebri e sconosciuti. Morì quando ormai la fotografia, con sua grande soddisfazione, era stata elevata al rango di arte, accanto alla pittura, la musica e la letteratura.

«Guerra e Pace. John Phillips testimone del Novecento», Mnaf (Museo nazionale Alinari della fotografia), Firenze, dall'11 settembre al 26 ottobre.
A cura di Charles-Henri Favrod. Catalogo Alinari.
Orario: tutti i giorni dalle 10 alle 19; chiuso il mercoledì.
Ingresso: intero 9 euro; ridotto 7,50 euro; convenzioni 6 euro; scuole 4 euro
di Giovanna Mancini da
ilsole24ore
Per informazioni
foto alinari
Date uno sguardo al sito delle foto Alinari: è stupendo!

domenica 24 agosto 2008

Baggio: io felice senza calcio

ALTAVILLA VICENTINA (Vicenza) - Passi vent'anni sperando che torni il più presto possibile e gli altri venti augurandoti che non torni più. Perché hai invocato ostinatamente il miracolo: il rientro sempre più rapido dall'infortunio sempre più grave, per la voglia di rivedere in campo le sue giocate e la sua fantasia. E perché, soltanto dopo il ritiro, hai scoperto che l'uomo con i suoi desideri più semplici aveva preso il posto del campione e delle emozioni uniche che sapeva regalare. Dalla normalità della straordinarietà alla straordinarietà della normalità: un percorso che Roberto Baggio ha saputo compiere senza ostentazioni, con umiltà e tenacia.

In mutande l'avevo lasciato quattro anni fa, Milan-Brescia l'ultima partita, e in mutande me lo ritrovo di fronte in un giorno d'agosto, "nel limbo del nulla estivo". Altavilla Vicentina, una strada in salita e una mezza curva a destra prima del portone di legno: Robi è rientrato un paio d'ore fa da Asiago e ha cominciato a tagliare l'erba con una macchina moderna eppure rumorosissima. Ettari di prato all'inglese. I pantaloni li ha sacrificati al caldo e all'umidità, ha tenuto addosso soltanto una camicia verde bottiglia e un berretto calzato alla ciclista.

s ul berretto è impressa una delle tante battute importate dall'Argentina, "que perro camorrero...", "che casinista...". Indimenticabile la volta in cui Robi si presentò a Lippi - stagione nervosamente interista - con la scritta "matame si no te sirvo", ammazzami se non ti servo.

Sudato, le cicatrici che gli segnano le ginocchia e raccontano la sua storia più tormentata, conserva ancora il brillantino al lobo sinistro. "Negli ultimi mesi ho ripreso qualche chilo", quasi si scusa, "colpa del vino. Quando sono a tavola non so resistere a un paio di bicchieri di prosecco bello fresco, soprattutto in giornate come questa. Se smetto per un mese, di chili ne perdo subito quattro o cinque. E poi ho un metabolismo che fa schifo: ingrasso soltanto guardandolo, il cibo. Sono fuori registro, da sempre. Quanti aerei ho perso per colpa dell'antidoping quando giocavo. Catania, Lecce, Napoli, troppe volte mi è toccato dormire fuori e rientrare da solo la mattina seguente. Finivo la partita totalmente disidratato: le funzioni riprendevano dopo sei, sette ore. Ti lascio immaginare cosa accadeva dopo una notturna. Soltanto negli ultimi due anni a Brescia sono riuscito a risolvere il problema, evitando di fare pipì nelle ore che precedevano la partita. Poi, però, mi toccava tenerla per novanta minuti".

Cosa fa Baggio? come vive? quando torna? ma ha voglia di tornare? si annoia senza il pallone? davvero non gli manca? e i vuoti come li riempie?
Sempre le stesse domande per quattro anni, quelli dell'assenza. Poste con un affetto e un rispetto speciali però. "Sto bene, sul serio. Questo che vedi è il mio mondo, la casa, il prato, il bosco, il capanno, gli uccelli, il magazzino. Non credo che potrei azzerare tutto per risalire sulla giostra, oggi. Un altro trasloco non è possibile e in questo momento neanche lo desidero. Siamo in cinque, devo pensare innanzitutto ai figli, diciotto, quattordici e tre anni: hanno il diritto di essere seguiti da vicino. Mi godo la libertà di guardare con fiducia a ciò che li attende. Con tutte le cose che devo fare non ho il tempo per annoiarmi, e in fondo un po' di noia l'avevo messa in conto. Mi sento padrone delle mie giornate, è una sensazione fantastica. Avevo a lungo sognato di potermi permettere una vita del genere: di non avere più presidenti, direttori, allenatori, obblighi, scadenze, orari da rispettare. Quel che dovevo fare l'ho fatto, al calcio ho dato tutto me stesso. Fin da quando ero ragazzino, domandalo a mio padre, non ho pensato ad altro. Allenamenti, ritiri, viaggi, alberghi, partite e ancora allenamenti: mi sembrava di essere Cutolo... Non ho fatto un passo indietro, ma due avanti".

Soprattutto come uomo. "Non mi va di fare discorsi troppo seri ma questo pezzo di vita l'avevo preparato. Se ci pensi, in quattordici anni di amicizia e collaborazione con Vittorio (Vittorio Petrone, il suo agente, ndr) non abbiamo mai progettato una seconda carriera, un dopo nel calcio. Volevo vedere com'è il mondo, provare il gusto delle cose semplici e fare a tempo pieno tutto quello che da calciatore mi era permesso di fare per solo venti giorni all'anno. Anche frequentare gli amici: l'amicizia è il più alto valore dell'essere umano, come mi ripeteva Ikeda, il maestro".

Al polso destro porta due braccialetti di gomma con la stessa scritta, "Heroes Company". Spiega che è una delle iniziative che lo impegnano maggiormente. "Un'organizzazione no profit che ho fondato con Vittorio un anno fa, settembre duemilasette. Eravamo ospiti in un villaggio a una settantina di chilometri da Vientiane, la capitale del Laos, dove avevamo portato degli strumenti didattici per combattere l'aviaria - da sei anni sono ambasciatore della Fao. Mi aveva conquistato il lavoro dei volontari, gli eroi moderni, e ho sentito il desiderio di dare una mano. Lì è nata Heroes Company. Da mesi stiamo progettando interventi di assistenza alle persone rimaste ferite in modo grave dalle mine anti-uomo, donando arti artificiali. Sogno anche di andare in Birmania per consegnare al Nobel per la Pace San Suu Kyi - agli arresti domiciliari - il riconoscimento che le hanno assegnato il presidente Napolitano e Walter Veltroni, da sindaco di Roma. È stata lei a volere che fossi io a riceverlo al suo posto. Il problema è che in questo momento sia io sia Vittorio siamo nella black list degli indesiderati dal governo birmano".

Robi sembra appagato, in perfetta armonia con le cose che lo circondano. E al presente. Gli unici ritorni che si concede sono quelli dall'Argentina, dalla Pampa. Il più recente a fine luglio. Mi mostra una foto scattata dopo una battuta di caccia: la metà del cinghiale di oltre due metri che ha centrato nella notte. "Di giorno animali di queste dimensioni non li vedi. Un maschio di 168 chili, furbo, doveva averne viste di tutti i colori: conosceva il cacciatore, le cartucce, i cani, li sentiva a chilometri. Tre uscite a vuoto e finalmente l'abbiamo incrociato di nuovo. Nelle sere precedenti avevamo incontrato soltanto femmine e piccoli, e le femmine e i piccoli non si toccano. Riuscire a pensare come l'animale che stai inseguendo, anticiparne le mosse è un gioco alla pari: istinto contro istinto, esperienza contro esperienza. E siamo nel suo territorio. Sapessi quanti contadini ci chiamano per chiederci di fermare i cinghiali che devastano i loro campi... Diverse volte ho provato a spiegare il mio rapporto con la caccia, senza riuscirci. Soltanto chi la vive con il mio stesso entusiasmo e rispetto può capire".

Da una prima vita costruita con i piedi a una seconda fatta con le mani, nuovi strumenti, nuovi temi, nuovi elementi. Robi colleziona gabbie per uccelli, le restaura personalmente: ne ha più di duecento. E specchietti per le allodole: ne possiede di inglesi, di francesi, dei primi del Novecento. E poi richiami, stampi, anatre di legno povero annerite col catrame: quattro appartenevano a Giacomo Puccini ("le ho trovate sul lago di Massaciuccoli dove andava a caccia"). Lavora volentieri e con insospettabile abilità il legno, ha anche rimesso a posto un barcone da pescatori acquistato a Grado. L'ha piazzato al centro di una delle tre stanze dedicate a questa sua passione.
Poche le tracce di calcio, nella villa su tre livelli. Alle pareti foto di Ronaldo, Zamorano, Zanetti con Valentina e Mattia (i due primi figli di Baggio, ndr). Il Pallone d'oro ha il posto più nobile, nel corridoio che porta alla camera da letto e di fianco ai primi scarpini, del numero ventotto, che sua madre gli ha restituito trentatré anni dopo, quando Robi ne ha fatti quaranta. Le maglie ci sono tutte, riempiono una serie di armadi bianchi chiusi a chiave, di sotto, nel magazzino. "Non le ho mai mostrate a nessuno, ne avrò più di seicento, quella di Maradona ai Mondiali, di Pelé nel Santos, e poi Van Basten, Gullit, Zico, Baresi. Ho conservato anche le scarpe e le tute".

Un ordine sorprendente, quasi maniacale. "Tengo dietro a tutto io. Non ho più bisogno dei fuochi d'artificio, ma neppure di sacrifici. Ricordo gli anni con Sacchi in Nazionale, ogni stagione con lui ne valeva cinque con un altro. Non staccava mai. Tra campionato e coppe giocavamo la domenica, il mercoledì e di nuovo la domenica. Ci allenavamo tutti i giorni, anche il trentuno dicembre e il primo gennaio e, insomma, lui nella settimana libera, a febbraio mi pare, si inventò gli stage alla Borghesiana. Campo, pranzo, videocassette, e ancora campo. Quando mi riusciva di scappare a casa per un giorno mi sembrava di entrare in Paradiso. La fatica era soprattutto mentale, per uno spirito libero come il mio. A Vale, a Mattia ho portato via quattordici anni di presenza". Ricicla una delle sue battute: "Leonardo, il mio più piccolo, quando mi ha visto la prima volta ha urlato: nonno!".

Una doccia rapida, il codino non c'è più da un pezzo: capelli corti e grigi, comodi. Mi porta a pranzo a dieci minuti d'auto da Altavilla: da Benetti, che curiosamente si chiama Romeo, alleva gustosissimi polli ruspanti e coltiva amicizie di qualità, da Mario Rigoni Stern ("abbiamo trascorso tante giornate insieme e non mi ha mai parlato dei suoi libri, se non una volta, alla vigilia di Natale di qualche anno fa, quando sottolineò il rapporto tra la ricchezza di oggi e la miseria di allora: è stata una grande perdita") a Gian Antonio Stella, a un altro straordinario giornalista, Gigi Riva. Con noi c'è Claudio, il padre della moglie di Roberto, Andreina. Chiacchierano senza soluzione di continuità - e bevono - in veneto strettissimo, una lingua che si apre ogni tanto al calcio. "Quando Berlusconi e Galliani hanno cominciato a parlare di Ronaldinho", dice Robi, "ho capito che l'avrebbero preso. Al Milan sono fatti così, amano quel genere di giocatore: volevano costruire un blocco brasiliano e soprattutto recuperare Ronaldinho stimolandolo con la concorrenza di Kakà e Pato. Non può permettersi di arrivare terzo nel suo Brasile. Non so cosa gli sia capitato a Barcellona, ma qualcosa dev'essere successo perché a un certo punto Rijkaard non l'ha più convocato e hanno cominciato a far uscire voci su presunti dissapori con Eto'o, ai quali non ho mai creduto. Se hai Ronaldinho non lo tieni in panchina. A meno che tu non abbia un motivo molto serio. Adesso il Barcellona lo allena il mio amico Pep Guardiola: un tipo molto intelligente, gli auguro di ottenere i successi che merita. Ha iniziato alla grande, nei preliminari di Champions".

Un secondo di silenzio prima di parlare di Inter. "Mancio si è tagliato la testa da solo dopo la partita col Liverpool, lì l'allenatore mi ha ricordato il calciatore. Un giocatore formidabile ma con un limite, o almeno così dice la sua storia: nelle sfide che contavano andava in difficoltà". Un'altra pausa e una sorta di affondo: "E non era, non è il solo. Rimpianti? Piuttosto pensieri che ogni tanto si riaffacciano. Il tiro al volo nella partita con la Francia ai Mondiali del '98, ad esempio. In quell'occasione Barthez scivolò ma io me ne accorsi in ritardo, quando avevo già preparato la battuta di prima intenzione. Se fossi stato più freddo, avrei segnato di sicuro e non ci avrebbe più fermato nessuno".di Ivan Zazzaroni da
repubblica.it
Questa lunga intervista, riportata integralmente è il mio attuale omeggio all'ultimo grande giocatore del calcio mondiale, non solo italiano .La vita di Baggio è stata ed è un romanzo.E' un UOMO vero che ha sofferto molto per imporre il suo enorme talento in senso reale e metaforico e che è stato molto amato, e lo è ancora, ma anche troppi invidiato da gente meschina e bulla, tipo Vialli tanto per fare nomi.Il suo giudizio su Mancini è esatto al nanogrammo, fotografa un talento che mai è stato capace di dare tutto se stesso soffrendo per vincere qualcosa di importante.Anche altri ,dice Baggio, si sono mostrati incapaci di vincere nel momento topico, quello che li avrebbe resi immortali e stavolta faccio io i nomi: per esempio Vialli, per esempio il pompatissimo Del Piero, quello che , titolare in Francia, pompato dalla stampa sportiva in mano all Juve, fallì miseramente ma pretese, grazie agli sponsors, di giocare una finale da cadavere.Che bei ricordi evoca Baggio!Senza di lui il calcio è altro, ben altro , poca cosa direi
guardatelo...FANTASTICO e che tocco di palla..UNA CAREZZA..

Pompei ritrova i tesori nascosti per venti anni

Pompei. Molte non sono neanche segnate nella piantina degli Scavi. Eppure ci sono. Rappresentano le più belle e incantevoli dimore dei pompeiani di duemila anni fa. Da decenni inviolabili dagli sguardi dei turisti, dal primo settembre ritorneranno a incantare il mondo con i meravigliosi e suggestivi affreschi e mosaici. Sette giorni di attesa a partire da oggi, dunque: 11 subito aperte, altre otto completamente visitabili da novembre. Poi, c’è da credere che ci sarà una folla di appassionati che tornerà a vedere le case rimaste per anni solo nella memoria, oppure mai viste prima. Come la dimora di Ifigenia, riportata alla luce tra il 1824 e il 1825, una tipica domus pompeiana dove nel peristilio fu rinvenuto il famoso sacrificio di Ifigenia. Quella del principe di Napoli, dei gladiatori, di Trebio Valente, dei quadretti teatrali, di Marco Lucrezio Frontone e di Obellio Firmo, casa disabitata quando la furia del Vesuvio si abbatté sulla Pompei romana del 79 dopo Cristo. «Allontana dalla donna altrui gli sguardi lascivi e le occhiate languide, e non dir parolacce», questo suggerimento, inciso su una delle pareti del triclinio della casa del Moralista e da anni vietato al pubblico, ritornerà a esortare quanti lo leggeranno, ad assumere comportamenti sobri. Tra le più belle dimore che saranno incluse nel nuovo itinerario dell’area archeologica ci sono la Villa di Diomede (dove durante i lavori di scavo tra il 1771 e il 1774 furono rinvenuti due corpi aggrovigliati, uno dei quali aveva un anello d’oro al dito, una chiave d’argento e 1356 sesterzi aggrovigliati in mano). Ecco la casa del Chirurgo, (strumenti chirurgici, in ferro e in bronzo, sonde, forcipi, cateteri e bisturi). Ancora la domus di Apollo e poi quella del Meleagro. Ci sono poi le case numerate con il 2 e il 16 della zona ottava, le case del giardino di Ercole, del Larario di Achille e del Menandro. Si passa subito dopo alle Terme suburbane, (regno dell’eros per i pompeiani) e l’Ara Massima. Nell’attesa dell’evento della riapertura continuano le polemiche a distanza tra i sindacati e il commissario Renato Profili. Lo scontro è sul reclutamento di vigilantes privati a guardia dei tre ingressi del sito archeologico. Cgil, Uil, Flp, Unsa e Rdb hanno sottoscritto un accordo con il soprintendente Pietro Giovanni Guzzo per l’impiego di trenta unità della soprintendenza per la sorveglianza delle nuove domus. La Cisl, invece, continua a «non riconoscere nel professore Guzzo il giusto interlocutore per le trattative e invoca un tavolo di confronto con il prefetto Profili». Le agenzie di vigilanza privata dell’hinterland partenopea, intanto, continuano a presentare le offerte al commissariato dell’area archeologica. Il termine ultimo per la presentazione è a mezzogiorno del 5 settembre. Sull’argomento torna a prendere posizione il segretario generale della Cgil beni culturali, Antonio Santomassimo, che sottolinea il pericolo di «infiltrazioni di camorra attraverso le agenzie di vigilanza privata». «L’intenzione di privatizzare la vigilanza del sito non solo produce ulteriori e inutili costi alle casse pubbliche - dice Santomassimo - ma rischia di esporre la pubblica amministrazione alla mercé di questa o quella società privata, spesso non in regola con le normative antimafia, proprio in un settore delicato come quello del controllo e della vigilanza».di Susy Malafronte da
il mattino
LA CASA DI APOLLO
Era di un commerciante tra le statue ritrovate anche quella di Fauno ora al museo nazionale

Il Dio Apollo, più volte raffigurato, ha dato il nome alla casa appartenuta a un ricco commerciante. Le statue di Apollo e di Fauno alla caccia di una cerva (che ora si trova nel museo archeologico nazionale di Napoli) ornavano l'ingresso del tablino, dove c'è un quadretto di Venere. Il cubicolo in fondo al giardino ha un prezioso mosaico colorato che raffigura Ulisse che riconosce Achille travestito e nascosto tra le figlie del re Licomede di Sciro.

LA VILLA DI DIOMEDE

Una dimora per ricchi con vista sul mare tra le rovine furono trovati due corpi aggrovigliati

La Villa di Diomede, scoperta durante gli scavi tra il 1771 e il 1774, fu attribuita a Arrius Diomedes. Accanto sorgono la zona termale e ambienti residenziali e di servizio. Dal triclinio si godeva una splendida vista sul giardino sottostante e sul mare. Durante i lavori di scavo furono rinvenuti due corpi aggrovigliati, uno dei quali aveva un anello d'oro al dito e una chiave d'argento in mano. Altri 18 corpi, tra i quali donne e bambini, asfissiati dai vapori, furono scoperti nel sotterraneo.



IL GIARDINO DI ERCOLE
Il padrone fabbricava profumi e nell’orto coltivava le essenze per le sue produzioni

Le analisi paleobotaniche dell'enorme spazio verde posto sul retro della casa del giardino di Ercole, (o del Profumiere), attestano la coltivazione soprattutto di essenze idonee a produrre profumi, quindi gli studiosi ritengono probabile che il proprietario fosse un profumiere. Nella sezione centrale della parete est del giardino c'è un triclinio in muratura per pasti all'aperto. Accanto, invece, sorge un altare e un'edicola dedicata al culto di Ercole, del quale è stata rinvenuta una statua che ha dato il nome alla casa.



IL LARARIO DI ACHILLE

Quando la cenere del Vesuvio distrusse le strutture era un edificio già vecchio e in fase di ristrutturazione



La facciata in opera quadrata attesta l'antichità della casa. Il terremoto del 62 dopo Crostone impose la ristrutturazione, ancora in corso al momento dell'eruzione. Il larario di Achille deve il nome alle figure a rilievo e dipinte su fondo azzurro che mostrano gli ultimi episodi della guerra di Troia: il duello tra Achille ed Ettore, la morte del Troiano, la restituzione del suo cadavere, sul carro, al vecchio padre Priamo scortato da Hermes.


La notizia migliore e questa e cioè che "La virtual house è nel futuro della città sepolta. Una giornata tipo dell'antico pompeiano vissuta, virtualmente, in una delle domus degli scavi, da un turista prima di avventurarsi tra antiche vestigia dell'odierna realtà. Dalla quotidianità del fare la spesa alle performance erotiche consumate nel Lupanare, nella casa dei Vetti o nelle Terme Suburbane. È uno dei tanti progetti che il ministero dello Sviluppo economico ha intenzione di finanziare con i centocinquanta milioni di euro già stanziati e pronti per essere spesi a favore di imprese, enti museali e archeologici, università ed enti di ricerca che intendono mettere insieme la tecnologia con il turismo e i beni culturali per farne strumenti di ulteriore sviluppo e di servizio ai visitatori. «Una sorta di motion-emotion - spiega il senatore Raffaele Lauro, consigliere del ministro Claudio Scajola, che ieri ha incontrato il commissario Renato Profili - per preparare il turista sia sul piano delle informazioni di natura storica e ambientale che dal punto di vista delle emozioni che vivrà durante la visita a uno dei più importanti complessi archeologici del mondo. Centocinquanta milioni di euro sono già stati stanziati. Aspettiamo di poter valutare i progetti da finanziare». Il commissario Profili ha molto apprezzato la novità proposta dal senatore Lauro affermando che «l'area archeologica sarà una delle protagoniste di questa rivoluzione». Lauro è venuto a spiegare ma soprattutto a fornire gli strumenti per incalzare chi i progetti deve presentarli. Da una parte ci sono i fondi di provenienza statale, dall’altro interventi messi in cantiere a livello locale. Sono previste luci artistiche per illuminare il perimetro esterno dell'area archeologica. «Il Comune e la Sovrintendenza - spiega il sindaco Claudio D'Alessio, che ieri mattina ha incontrato il prefetto Profili - investiranno centosessantamila euro per illuminare in maniera artistica piazza Esedra e via Villa dei Misteri. Questo nell'ottica di una cooperazione tra l’ente e il commissario. Anche l'Adap, l'associazione albergatori, auspicando una fitta rete di collaborazione tra la gestione commissariale e la realtà ricettiva, ha chiesto e ottenuto un incontro con Profili. Ieri mattina, la presidentessa dell’associazione degli albergatori pompeiani, Rosita Matrone, ha prospettato al commissario «tutti gli sforzi imprenditoriali che le forze sane della città stanno ponendo in essere per il rilancio di Pompei.
Il vero rilancio di Pompei e di altri siti archeologici campani sarebbe una manna dal cielo, speriamo che se ne occupi gente capace e intraprendente.POMPEI E' UNA MINIERA D'ORO







sabato 23 agosto 2008

La Firenze di Boccaccio in un sexy film

Il 5 settembre uscirà in Italia il film di David Leland prodotto da Dino De Laurentiis e Cavalli: si chiama Decameron Pie e promette scene bollenti Giovani fiorentine del ’300 fasciate in lunghi abiti di velluto nero, pantaloni di pelle a go go, suore (licenziose) nascoste da pudichi veli bianchi: così Roberto Cavalli, al debutto come costumista, ha vestito i protagonisti di Decameron Pie di David Leland, la commedia con Hayden Christensen, Mischa Barton, Tim Roth e Anna Galiena, molto liberamente ispirata al Decameron di Giovanni Boccaccio, che strizza l’occhio nella trama, come nel titolo, alle commedie sexy giovanilistiche sul modello di American Pie.
FINALMENTE IN ITALIA. Il film da 40 milioni di dollari, prodotto da Dino De Laurentiis insieme alla moglie Martha, a Tarak Ben Ammar e allo stesso Cavalli, a oltre due anni dalla fine delle riprese in Italia (a Cinecittà e in location come San Gimignano, Siena, Bracciano e la campagna intorno a Caprarola) e dopo vari cambiamenti di titolo (fra gli altri, Virgin territory, Chasing Temptation, Decameron: Angels & Virgins, Guilty Pleasures e per il mercato d’oltralpe Medieval Pie), arriverà nei cinema italiani il 5 settembre distribuito da Eagle Pictures. Per la pellicola, tuttavia, l’uscita in sala (finora avvenuta solo in Russia, Ucraina, Singapore e Francia), non ci sarà nè negli Usa nè in Gran Bretagna, dove sono già state fissate, per agosto, distribuzioni direttamente in video. Nelle note di produzione, comunque, Dino De Laurentiis sottolinea la bravura di Leland: «È entrato in sintonia con la storia e ha compreso immediatamente ciò che volevamo. Ha scritto un bellissimo copione, moderno, intrigante, i cui temi sono gli stessi che coinvolgono i giovani d’oggi: l’amore, il sesso, l’avventura».
TRAMA ISPIRATA AL DECAMERONE. La trama, ricca di scene di nudo, pesca a piene mani, per le situazioni, dalle novelle del Boccaccio ma stravolgendo linea narrativa e personaggi, che spesso restano legati all’originale solo nei nomi. Protagonista della vicenda, narrata dal pittore-finto monaco Tindaro (Craig Parkinson) è Pampinea (Mischa Barton) giovane fiorentina rimasta orfana e promessa sposa a un conte russo che, nella Firenze del 14/o secolo, martoriata da un’epidemia di peste, cerca di sfuggire al bieco Gerbino De la Ratta (Tim Roth, sempre credibile), intenzionato a sposarla. Nella ricerca di un luogo in cui nascondersi, la ragazza si ferma in un convento dove ritrova il bel Lorenzo (Hayden Christensen), da sempre innamorato di lei ma diventato in breve tempo l’amante di tutte le suore (fra cui anche Elisabetta Canalis e Anna Galiena), facili allo strip e ansiose di sedurre. Al gioco amoroso fra Pampinea e Lorenzo, si intrecciano quelli degli amici della ragazza, come Filomena, Elissa, Dioneo e del conte russo arrivato in Italia. «Boccaccio è stato geniale nel modo in cui ha legato fra loro le singole storie - spiega Leland -. La maggiore difficoltà è stata individuare una storia centrale che unisse le varie trame parallele. Il Decameron racconta 100 storie diverse, ma tutte ambientate nello stesso mondo. Dino non voleva realizzare un film a episodi e io ero d’accordo con lui», anche se «per quanto riguarda la recitazione, il dialogo, i costumi, la scenografia o l’ambientazione - aggiunge - la nostra priorità è sempre stata lo spirito del Boccaccio». Cavalli, che per il film ha realizzato 150 costumi aggiunge che «anche come costumista sono rimasto me stesso. È un Trecento senza tempo e un Cavalli riconoscibile. Alcuni abiti li ho recuperati dal museo storico della mia moda, altri un pò modificati».da


corriere.it
Mah certi nomi come quelli della Galiena e, peggio, della Canalis depongono per il fatto che questo sarà un film stile pecoreccio anni 70...oltretutto nessuna delle due è intrigante davvero, sono bonazze e basta..Non si sentiva la mancanza di un'opera cinematografica (eufemismo) di tal fatta che punta ad incassi sostanziosi cercando di attirare spettatori di bocca buona e in cerca di scene pruriginose .Sarà la solita schifezza gabellata per arte..Decameron pie..sarà una vera porcata..mai come ora il titolo è illuminante, che dico, FOLGORANTE!
Povero Boccaccio!

lunedì 11 agosto 2008

Giovanni Fattori. La poesia del vero

Oltre duecento opere di Giovanni Fattori (Livorno 1825 – Firenze 1908), fra pittura e grafica, dal 6 settembre al 30 novembre si affiancano ai capolavori di Dürer, Gentile da Fabriano, Tiziano, Rubens, Goya, Canova, Monet, de Chirico, Morandi e dei tanti altri maestri dal Trecento al Novecento esposti stabilmente alla Fondazione Magnani Rocca, nella splendida dimora che Luigi Magnani riempì di capolavori a Mamiano di Traversetolo, nell’area pre-collinare vicino a Parma.

Può apparire quasi una nemesi storica il fatto che i contadini, i butteri e i buoi che Fattori scelse per alcune delle sue più celebri opere siano esposti in questa sede. Qui Luigi Magnani, straordinaria figura di imprenditore coltissimo, mise a frutto, creando una magnifica collezione d’arte, proprio i proventi dell’attività agricola di famiglia, proventi assicurati da vaste campagne, allevamenti e caseifici in un’area di assoluta eccellenza nell’agroalimentare.

La mostra, realizzata nel centenario della morte di Giovanni Fattori grazie al contributo della Fondazione Cariparma e di Cariparma (Gruppo Crédit Agricole), è curata da Andrea Baboni, massimo studioso dell’opera del grande artista e curatore anche della retrospettiva livornese di cui questa mostra rappresenta un importante esito.

E’ la prima volta che in Emilia Romagna si riunisce un’antologica esaustiva di tutta l’opera di Fattori, maestro del realismo europeo, considerato anche il più importante pittore macchiaiolo. Il movimento dei Macchiaioli, al quale Fattori aderisce per alcuni anni, nasce di fatto nel 1856, affermando che la luce e il colore sono per l’individuo l’unico modo di entrare a contatto con la realtà, che dovrà, per i macchiaioli, essere restituita nei dipinti come una composizione a macchie.

L’arte di Fattori viene così indagata in tutta la sua complessità tecnica e tematica, a partire dagli inizi accademici ai primi studi militari, dalle tele di battaglia, alle sintetiche, liriche tavolette degli anni 1865-1875, ai mirabili ritratti, ai quadri di butteri, sino a toccare tutti gli aspetti del vero, dal paesaggio alla figura, comprese le opere che aprono al nuovo secolo, dipinti dalle cadenze vagamente espressioniste, dove figure come isolate in uno spazio senza tempo, rimandano al dramma esistenziale dell’uomo del Novecento.

Dalla mostra emerge una grandezza, quella fattoriana, fondata sulla complessità di una produzione ricca di tante sfaccettature, in cui i più alti raggiungimenti stilistici affiorano lungo tutto l’ampio arco creativo, nell’utilizzo delle più svariate tecniche: all’efficacia del robusto disegnatore, va affiancato il momento riassuntivo e intimo delle acqueforti nel cui formato l’artista riprende e reinventa, con energia costruttiva sempre nuova, i suoi temi come asciugati dal superfluo e scavati al comune denominatore di una faticosa esistenzialità, non frammenti, ma in tutto organismi autonomi. La mostra si articola secondo le venti sezioni di seguito elencate:
Studi di figure. I primi ritratti 1859-1865. Primi studi di temi militari 1859-1865. L’epopea risorgimentale: le tele di battaglia 1860-1870. Le tematiche agresti: classicità della figura e sentimento elegiaco della natura 1861-1866. Le abbreviate sintesi dal vero 1862-1870. Concitazione e movimento nelle composizioni militari degli anni settanta 1865-1880. Il periodo di Castiglioncello 1867-1875. Gli accampamenti militari 1868-1880. Vedette e pattuglie 1870-1880. La poesia dei campi: erbaiole e fascinaie 1870-1890. Il primo periodo romano. La poesia dei muri bianchi 1871-1880. Riflessi d’acqua: l’Arno, Antignano, Livorno 1870-1890. I luoghi dell’anima 1870-1895. La fatica quotidiana 1870-1900. Lo studio degli animali 1875-1890. Figure e ritratti della maturità 1875-1900. Scene di vita urbana 1880-1885. Il soggiorno alla Marsiliana: lo studio dei butteri 1880-1895. Esplorazioni e manovre 1880-1900. Le disillusioni e l’isolamento 1890-1900.
Data Inizio: 06/09/2008
Data Fine: 30/11/2008
Costo del biglietto: 8,00 euro
Sito Web: http://www.magnanirocca.it/

da Beniculturali.it

Una mostra con opere di Giovanni Fattori si è tenuta pure in Toscana presso Villa Bardini infatti il 2008 è considerato un anno "fattoriano" dato che Giovanni Fattori morì il 30 agosto del 1908.Sono passati 100 anni dalla sua morte eppure la sua pittura è ancora fresca, fragrante di profumi e sentimenti antichi ma in realtà eterni, ricca di atmosfere rilassanti ma pur sempre dotate di grande forza espressiva.Consiglio a chi può di vedere questa mostra di un grande pittore capace di evocare atmosfere uniche e affascinanti senza forzare mai per essere un innovatore iperoriginale.Anche questo è essere ARTISTA





sabato 9 agosto 2008

Praga 1968, ecco ciò che Eco non ha visto

Tre giorni fa a Cortina, Enzo Bettiza, autore del recente La primavera di Praga. 1968 (Mondadori) ha dato il via a una rovente polemica con Umberto Eco. Secondo Bettiza «a Eco non importava nulla degli studenti e dei lavoratori di Praga: a lui importava solo che il blocco sovietico rimanesse compatto». Eco ha prontamente smentito ma ieri, sulle pagine de Il Giornale abbiamo presentato ampi stralci del suo reportage da Praga, pubblicato su l’Espresso del 1º settembre 1968, che dimostrano una certa «timidezza» nel prendere posizione verso gli occupanti sovietici e le loro atrocità.
Nell’agosto del 1968 Josef Koudelka rientrò in Cecoslovacchia dalla Romania, dove era andato a fotografare gli zingari. Studi di ingegneria aeronautica alle spalle, un’attività di free-lance come fotografo teatrale di scena, erano sei anni che il trentenne Josef si interessava ai Gitani e al loro mondo, sognava di farci un libro, di fissare sulla carta un modo di essere e di esistere.
Era un romantico, Koudelka, non gli piaceva la realtà del proprio tempo, inseguiva l’utopia di una vita difficile e però piena, minacciata e però libera. Con negli occhi le immagini dei carri nomadi, di colpo si ritrovò davanti quelle dei carri armati del Patto di Varsavia e di una nazione, la sua, invasa, umiliata e offesa, piena di rabbia, ma impossibilitata a reagire, costretta a subire... La «primavera di Praga» moriva così, in un’estate grigia e umida di quarant’anni fa e per un giovane fotografo che non amava la cronaca e disprezzava l’attualità quelle sarebbero potute essere, dovute essere, giornate in cui chiudersi in casa a sviluppare «l’altro» universo onirico e reale che così tanto e così a lungo lo aveva stregato. E invece Josef Koudelka scese per strada e continuò per giorni a girare e a fotografare: la repressione e la ribellione, i cortei e i blindati, i praghesi e i soldati russi, l’agonia di un’utopia...
Come un orso infastidito, con una zampata l’Urss aveva fatto volare via ogni speranza e ora si limitava a starsene lì, una presenza che non aveva neppure bisogno di agire. Non che non ci fossero stati anche i morti, un centinaio circa, o i feriti, un migliaio, ma nella patria di Kafka niente era come sembrava e tutto aveva una sua logica paradossale: eri invaso da un Paese «fratello» e alleato, ma era per il tuo bene, dicevano, e poi, sosteneva ancora l’invasore, glielo avevi chiesto tu... Eri uno Stato socialista e continuavi a ritenerti tale, ma dietro quello slogan del «socialismo dal volto umano» il «socialismo reale», quello vero, vedeva un volto che non gli piaceva, e quindi... Continuavi ad avere un presidente della Repubblica, Svoboda (che in ceco vuol dire «libertà»), il quale andava a Mosca, sua sponte, per trattare, ma a Mosca c’era già il tuo presidente del Consiglio, Dubcek, e l’avevano portato lì con la forza, e insomma era «in viaggio d’affari», come raccontavano le madri ai loro figli piccoli quando i padri finivano dentro per colpa della politica... Lungo i muri di Praga, fra le tante scritte che Koudelka fotografò, una diceva: «Lenin svegliati! Breznev è diventato pazzo!». Il problema era che la «pazzia» del secondo era perfettamente in linea con la supposta normalità del primo e se vent’anni di indottrinamento postbellico avevano reso possibile l’equivoco, dopo non sarebbe stato più così e il ’68 praghese è da questo punto di vista una sorta di spartiacque non solo politico, ma anche ideologico. Il comunismo morì allora, nella sua impossibilità a riformarsi e a rifondarsi. Altre scritte erano più semplicemente beffarde, rabbiosamente ironiche. «Abbiamo cacato sull’Occidente ed è dall’Oriente che la merda ci è ricaduta addosso. È la prova della sfericità della terra». «Prodotti d’esportazione sovietica: carri armati, piombo, morte». «Proletari di tutto il mondo, andatevene!». «Con l’Unione Sovietica per l’eternità. Al cimitero». «Non ci si può sedere sulle baionette»... Non campeggiavano solo sui muri, ornavano le vetrine dei bar e i finestrini dei tram, riapparivano sotto forma di volantini, all’interno di numeri unici di quotidiani e riviste: sintetizzate graficamente, una stella a cinque punte comunista trasformata in svastica nazista, un «go home» scritto con il gesso finivano addirittura sui cingolati sovietici... Già, perché l’occupazione di una città era anche questo, come con puntiglio da entomologo Koudelka fotografò: il tank e i cittadini, le baionette inastate e la folla che le fronteggia, le finestre di un palazzo andate in pezzi per una sparatoria dimostrativa e i feriti dalle schegge che vengono soccorsi... Delle centinaia di foto scattate, una piccola parte trovò, qualche mese dopo, la via dell’Occidente.
Nel ’69 l’Agenzia Magnum, in occasione del primo anniversario dell’invasione, le rese pubbliche: «Fotografo cecoslovacco anonimo» diceva il credit che sostituiva la firma: Koudelka viveva ancora a Praga, così come la sua famiglia, svelarne l’identità significava spalancargli la porta della galera. Quell’anno, comunque, vinse il premio Robert Capa della Overseas Press Club.... Nel ’70, grazie ai suoi Gitani, Josef su invito proprio della Magnum andò in Germania Occidentale a fotografarli e in Cecoslovacchia non tornò più. A metà degli anni Ottanta, i genitori ormai morti, rivendicò pubblicamente quei cliché nel corso della sua prima grande mostra alla Hayward Gallery di Londra, ma dovrà cadere il Muro di Berlino perché i praghesi possano vederle in patria, a ventitrè anni di distanza da quando furono scattate.
Il libro che ora le raccoglie, insieme con molte altre rimaste finora inedite, per un totale di 250, si chiama, semplicemente, Invasione Praga 68 (Contrasto-Forma editore) e sono struggenti perché si capisce che il fotografo non è solo uno spettatore o un testimone degli eventi, ma ne fa parte, è una delle migliaia di cittadini indignati e affranti, sconfitti ma non vinti che affollano le strade, agitano le bandiere, marciano nei cortei, fronteggiano i carri armati, lividi di rabbia e di paura, gli occhi lucidi, il volto teso. Koudelka è, appunto, uno di loro. Un ragazzo di Praga.di Stenio Solinas da ilgiornale
Quello che si può dire con certezza è che in altri frangenti Eco non è affatto "timido" ergo è il solito intellettual-radical-chic che dove vede ( si fa per dire..) e dove "ceca" .E allora la facciamo una colletta per donargli un bel pastore tedesco, cane guida per "cecati"?
E dire che in quell'occasione fu stroncata in modo arrogante e "padronale", roba da satrapi persiani,quella che veniva poeticamente definita " LA PRIMAVERA DI PRAGA.E dire che, ancora oggi a vedere il punto in cui di diede fuoco Ian Palach , uno degli eroi di quella rivoluzione, si prova un'emozione intensa ed una grande reverenza per un martire della libertà, LIBERTA' , parola sconosciuta nella sua reale essenza a troppa presunta intellighentia SINISTRA , senza vergogna, nè pudore

venerdì 25 luglio 2008

«Un cappello pieno di ciliege»Il romanzo postumo di Oriana Fallaci

«La vigilia della catastrofe (11 settembre 2001) pensavo a ben altro: lavoravo al romanzo che chiamo il-mio bambino. Un romanzo molto corposo e molto impegnativo che in questi anni non ho mai abbandonato, che al massimo ho lasciato dormire qualche mese per curarmi in ospedale o per condurre negli archivi e nelle biblioteche le ricerche su cui è costruito».

Spiega così la genesi di «Un cappello pieno di ciliege» l'autrice, Oriana Fallaci. A quasi due anni dalla sua scomparsa, 15 settembre 2006, il romanzo approda in libreria per i tipi di Rizzoli, e ilsole24ore.com ne pubblica in esclusiva un ampio stralcio del primo capitolo.
Si tratta di un testo postumo che arriva a noi attraverso il dattiloscritto che la Fallaci stessa consegnò con le indicazioni per la pubblicazione al nipote e suo erede testamentario, Edoardo Perazzi.

In occasione della presentazione di «La rabbia e l'orgoglio» ai suoi lettori la scrittrice descrisse il romanzo come «un bambino molto difficile, molto esigente, la cui gravidanza è durata gran parte della mia vita d'adulta, il cui parto è incominciato grazie alla malattia che mi ucciderà, e il cui primo vagito si udrà non so quando. Forse quando sarò morta. (Perché no? Le opere postume hanno lo squisito vantaggio di risparmiarti le scemenze o le perfidie di coloro che senza saper scrivere e neanche concepire un romanzo pretendono di giudicare anzi bistrattare chi lo concepisce e lo scrive). Quell'11 settembre (di cui sopra, ndr) pensavo al mio bambino, dunque, e superato il trauma mi dissi: "Devo dimenticare ciò che è successo e succede. Devo occuparmi di lui e basta. Sennò lo abortisco".
Così, stringendo i denti, sedetti alla scrivania. Ripresi in mano la pagina del giorno prima, cercai di riportare la mente ai miei personaggi. Creature di un mondo lontano, di un'epoca in cui gli aerei e i grattacieli non esistevan davvero. Ma durò poco. Il puzzo della morte entrava dalle finestre...». stefano.biolchini@ilsole24ore.com


«Un cappello pieno di ciliege»
di Oriana Fallaci, Rizzoli, 864 pagine, 25 euro, in libreria dal 30 luglio.da

ilsole24ore

Non potevamo non parlare di questo libro postumo della Grande Oriana.Oriana ci manchi, TANTO
Da leggere il bell'articolo di Alessandro Cannavò dal Corriere della Sera e quanto riportato da ilGiornale QUI e QUI
Oriana vive ancora nei suoi scritti.VIVA ORIANA

domenica 22 giugno 2008

ABBADO, COMPLEANNO DI UN GIGANTE

VIENNA - Settantacinque candeline, per Claudio Abbado: un gigante della Musica che come pochi ha saputo dare voce alle inquietudini di un secolo, sorprendendo per il coraggio delle sue scelte innovative e la sensibilità con cui ha saputo centrare il nervo che collega l'Arte con la Società. Il 26 giugno, il Maestro, nato a Milano nel '33 ma con sangue anche siciliano nelle vene, festeggera' 75 anni. Una vita sul podio, un reperorio sterminato, che esegue per lo più a memoria senza spartito, con molte 'incursioni' nel moderno, tutti i classici, sinfonici e operistici, e molte orchestre e festival fondati.

Londra, La Scala, La Staatsoper a Vienna, Berlino: un curriculum come pochi altri. Il mondo della musica, Abbado lo anche abituato a brusche cesure e annunci a sorpresa, volontari e non, piombati con la furia del fulmine sui suoi ammiratori - schiere in tutto il mondo- raccolti in parte del Cai (club degli abbadiani itineranti). Come quando il 13 febbraio '98 annuncio', dalle pagine di un improbabile tabloid di Berlino (Bz) che allo scadere del contratto nel 2002 avrebbe lasciato la direzione dei Berliner Philharmoniker, dove era stato chiamato alla morte di Herbert von Karajan nel 1989. O quell'altra, involontaria, quando nell'estate del 2000, fu annunciato che cancellava tutti i suoi impegni perché era stato operato di cancro allo stomaco. Adesso grazie a Dio il Maestro sta bene, si è completamente ripreso dall'operazione e come unica conseguenza deve solo mangiare poco e spesso, e anche a evitare il freddo e vivere in posti caldi. Cosa che fa alternando i suoi soggiorni fra Bologna, la Sardegna e l'America Latina e Cuba.

A curarlo dalla sua grave malattia, come disse lui stesso in interviste rilasciate quando si era completamente ripreso, è stata la musica: "é stata la migliore medicina". Il male servì anche a rafforzare il legame con i Berliner che a quel tempo non era sempre facile. Quando Abbado lasciò Berlino nel 2002, non solo fu ricoperto di omaggi e onori ma fu sommerso dall'affetto della 'sua orchestra e dei berlinesi: l'ultimo concerto il 26 aprile dell'addio alla Philharmonie a Berlino fu un tribudio di applausi, pioggia di fiori e standing ovations per il Maestro italiano che se ne andava. "Per me la musica non é mai stata carriera, ma amore", qui a Berlino ho imparato la generosità "e ora che me ne vado sono ricco", disse alla cerimonia del conferimento della Gran Croce al merito della Bundesrepublik da parte del Presidente Johannes Rau.

Abbado si concede il lusso di studiare, di scegliersi i concerti che vuole: Italia, Vienna e uno, ogni anno, a Berlino, dove l'ultimo che ha diretto è stato da poco (24 maggio) dopo il terriible incendio che ha colpito la Philharmonie. Il Maestro si trovava peraltro dentro con i Berliner ma per fortuna non è successo nulla né ai musicisti né agli strumenti, e il concerto è stato trasferito all'aperto nella straordinaria cornice della Waldbuehne: un trionfo di musica e di emozioni. Difficile estrapolare i meriti di questo musicista, infiniti: ma al primo posto Thomas Angyan, direttore da circa 20 anni del Musikverein, il tempio della musica a Vienna, residenza dei Wiener Philharmoniker e quinta ogni anno del famoso concerto di Capodanno, mette sicuramente il suo impegno per le giovani leve e la musica contemporanea. "Ha fatto un'opera da pioniere, senza di lui non sarebbe scontato, come è oggi, mettere nei programmi musica della seconda metà del XX secolo, Nono, Rhim, Ligeti, Kurtag", dice conversando con l'ANSA.

La loro è un' amicizia, temprata da 25 anni di assidua frequentazione. Si conobbero nell'83 a Londra e da allora infiniti i progetti assieme. Con tutte le orchestre e iniziative da lui chiamate in vita: l'Orchestra giovanile europea ('78), la Chamber Orchestra of Europe ('81), la Gustav Mahler Jugendorchester ('87), il Festival Jeunesse, Wien Modern e naturalmente anche i concerti con i Wiener prima (li ha diretti peraltro in due Concerti di Capodanno) e i Berliner poi. A settembre Abbado tornerà a Vienna con l'Orchestra di Lucerna (Festival da lui organizzato dal 2003). "Nessuno ha fatto tanto come Abbado per i giovani e la musica moderna", dice Angyan citando qualche perla delle sue celebri interpretazioni: Beethoven, Brahms, Bruckner, Wagner, e Mahler naturalmente le cui esecuzioni sono a suo giudizio delle "poetre miliari". E l'opera non è da meno, aggiunge: Wagner, Mozart, Verdi, Rossini. Nessuno a Vienna ha fatto e rinnovato tanto come lui, e anche a Berlino ha saputo gestire il difficile passaggio del dopo Karajan e ringiovanito molto l'orchestra. "Un passo importantissimo per l'orchestra che ha lansciato in uno stato fenomenale". di Flaminia Bussotti da ansa.it
Adoro Abbado per la sua classe, la sua semplicità, il suo rigore, la sua ineguagliabile abilità nel dirigere al meglio un insieme di solisti che suonano all'unisono come vuole lui che mai stravolge uno spartito musicale a suo uso e consumo come una starlette qualsieasi, ma anzi lo interpreta al meglio, coltivandolo come un fiore esotico, mai banalizzandolo, mai stravolgendolo, mai banalizzandolo.E' il mio direttore d'orchestra preferito, lo considero un vero artista nel suo campo,inarrivabile, ben diverso dello strombazzato Riccardo Muti che , per me non riesce mai a mettere anima nelle opere che dirige, trasformando in deserto piatto tutto ciò che tocca, a differenza di Abbado che da anima, vita, vigore, plasticità e perchè no, modernità ai vari capolavori che dirige.Di lui vorrei ricordare anche l'infaticabile attività a favore dei diseredati, in particolare dei bambini.L'ho visto in un filmato pochi giorni fa,in cui veviva registrata una sua tournè in Venezuela.Qui ha avuto modo di conoscere el coro de Manos Blancas, un coro firnato da ragazzini poco fortunati, portatori di vari Handicap.In particolare è stato davvero commovente vedere come dei bambini sordomuti che vivono in realtà molto degradate, riescono ad interpretare la musica con il movimento di mani coperte da guanti bianchi, come bianche colombe che si lanciano in voli arditi verso la libertà e la gioia che solo la musica, certa musica che prende il cuore e stordisce i sensi e culla la mente, può dare.Il maestro Abbado era felice di parlare di questi ragazzi , rubati audacemente e con metodi alla strada, cui la musica ha dato una ragione di vita e di gioia, sembrava un ragazzino felice mentre ne parlava e , in un certo senso mi ha commosso anche lui.Ecco Abbado è un grande artista ed un grande uomo.Buon Compleanno MAESTRO , sulle note di una sinfonia che amo molto e che, credo, le si addica molto.Grazie per tutto



Ah...eccoli i ragazzi che "cantano " con le mani...


venerdì 16 maggio 2008

E ora vi racconto gli inverni in cui nevicava sangue

Per gentile concessione dell’editore pubblichiamo uno stralcio tratto dal romanzo di Giampaolo Pansa I tre inverni della paura (Rizzoli, pagg. 567, euro 21,50) che sarà in libreria dal 21 maggio. Dopo i saggi dedicati alla guerra civile, Pansa si cimenta ora con un romanzo che parla del dramma italiano negli anni terribili dal ’43 al ’46, focalizzando il racconto sul cosiddetto Triangolo della morte tra Parma, Reggio Emilia e Modena.

Beniamino Socche era nato a Vicenza il 6 aprile 1890. All’arrivo nella diocesi di Reggio aveva cinquantasei anni appena compiuti. E dunque si trovava nel pieno del vigore fisico e morale. Insediato a Cesena nel 1939, durante la guerra civile aveva rivelato coraggio e fermezza. Non si era risparmiato nel difendere gli ebrei perseguitati e si era scontrato più volte con le autorità fasciste del posto. Meritandosi persino un arresto da parte delle SS tedesche.
Era un uomo alto, massiccio e con un carattere che non sopportava nessuna briglia. Aveva una devozione profonda per Maria Vergine, ma nemmeno la Madonna s’era mostrata capace di addolcire la sua grinta. Chi lo conobbe in quel tempo l’avrebbe poi descritto così: intuitivo, lineare, impulsivo, spesso testardo.
Vedeva come il fumo negli occhi qualunque accordo fra i cattolici e i socialcomunisti. Certo, durante la Resistenza l’intesa era stata utile. Ma adesso la guerra era finita. E per Socche un rapporto non conflittuale con il Pci rappresentava un pericolo per la fede religiosa e una trappola per la Chiesa.
Era stato questo profilo a destinarlo a Reggio Emilia. Socche sembrava fatto apposta per quella diocesi, assediata da un comunismo asfissiante e senza avversari politici in grado di contrastarlo. La Dc aveva una struttura troppo debole per opporsi agli Squadroni della morte. I socialisti andavano al seguito dei comunisti. Gli altri partiti quasi non esistevano. E a Socche risultava inconcepibile che il Pci sedesse in un governo accanto ai democristiani.
Dopo l’assassinio di don Pessina, il vescovo di Reggio si era recato a Roma per incontrare De Gasperi. Riuscì a vederlo mentre usciva, stressato, da un consiglio dei ministri. Socche gli disse: «Presidente, voi governate con i comunisti, ma a Reggio Emilia i rossi ammazzano i preti». De Gasperi allora gli spiegò: «Eccellenza, voi avete ragione. Però la strada è già segnata: prima con i comunisti, poi senza i comunisti, alla fine contro i comunisti».
Nelson ebbe modo di parlare più volte del vescovo Socche con il suo vecchio amico Olindo Canovi, il tecnico delle Reggiane. Cattolico e democristiano, Canovi ammirava Socche e sapeva molte cose di lui. Disse a Nelson: «Ci voleva a Reggio un presule coraggioso, in grado di difendere il suo gregge dai lupi».
Canovi raccontò a Nelson come si era mosso Socche nelle ore successive all’assassinio di don Pessina. La sera del 18 giugno, appena informato dell’omicidio, il vescovo si era fatto portare a San Martino di Correggio. Il corpo del parroco stava ancora riverso a terra. Un fazzoletto bianco, annodato sul capo, gli teneva fermo il mento. Socche s’inginocchiò accanto al prete, lo baciò sulla fronte, giunse le mani e cominciò a pregare.
«Quando si è rialzato» raccontò Canovi a Nelson, «chi gli stava vicino si è accorto che il vescovo piangeva. Ma il suo non era un pianto di paura o di disperazione. Bastava guardarlo negli occhi per capire che, da quel momento, non avrebbe dato tregua a chi gli aveva ammazzato don Pessina.«Socche ha voluto celebrare lui il funerale del parroco. Nella chiesa la gente era poca. Molti erano rimasti a casa per paura di quelli che tu chiami gli Squadroni della morte. Il vescovo ha preso la Bibbia e letto ad alta voce un passo adatto al momento. Era quello che parla della maledizione di Dio per coloro che toccano gli unti del Signore.
«Il giorno seguente era la festa del Corpus Domini» continuò Canovi. «Alla processione di Reggio è andata una folla di fedeli. Nel duomo gremito, Socche ha spiegato che cosa aveva intenzione di fare: “Io renderò noto a tutti i vescovi del mondo il regime di terrore che il comunismo ha creato in Italia!”».
Nelson apprese da Canovi le decisioni di Socche. Come primo atto, aveva scomunicato gli assassini di don Pessina, compresi i mandanti. Riservando soltanto a se stesso l’assoluzione eventuale. Quindi proibì tutte le processioni esterne alle chiese e agli oratori nei vicariati foranei di Correggio, di Canolo e di San Martino in Rio. Infine inflisse l’interdetto alla parrocchia di San Martino in Piccolo.
«Che cos’è l’interdetto?» domandò Nelson.
«Nel diritto canonico» gli spiegò Canovi, «è una pena spirituale inferiore soltanto alla scomunica. Dopo l’interdetto, nella parrocchia che era stata retta dal povero don Pessina non si poteva più celebrare la messa, confessare e comunicare i fedeli e nemmeno tenere funerali religiosi».
Il vescovo Socche aveva cominciato una battaglia destinata a proseguire per anni, con risultati controversi. Il suo obiettivo era esplicito: opporsi al comunismo, e non soltanto a quello reggiano. A proposito di Reggio Emilia disse: «Non è questo popolo buono e affettuoso che assassina e massacra la gente. Ma è soltanto un piccolo branco di malviventi che hanno già perduto l’ultimo brandello di coscienza. Insudiciati di sangue umano sino ai capelli. E accecati dall’odio e dall’interesse, che li hanno fatti diventar belve assetate di sangue».
Poi, sempre più esasperato, confessò: «Ho giurato a me stesso che don Pessina è l’ultimo prete che mi ammazzano. Il prossimo sarò io. Li costringerò a suicidarsi per la disperazione, questi assassini!».
Togliatti conosceva le circostanze dell’omicidio di don Pessina. E in che modo si era mosso subito dopo il vertice del Pci reggiano e quello dell’Anpi. Da un delitto terribile e senza motivo era venuta una catena di errori grossolani e privi di scusanti: il rifiuto di denunciare chi aveva sparato, la diffamazione del sacerdote, l’incapacità di impedire gli omicidi successivi e di nuovo la scelta di coprire i responsabili. Un caos voluto o subìto dai capi del Pci di Reggio. Quasi una congiura contro il partito, messa in atto da dirigenti del partito.
Infine c’era il problema di quel vescovo. Per Togliatti non era difficile prevedere che, attorno a monsignor Socche, si sarebbe raccolta un’opposizione sino ad allora quasi inesistente in città e nella provincia. Un partito informale, ben più forte della Dc reggiana. In grado di ingaggiare una guerra senza quartiere contro il Pci di Reggio e il vertice nazionale comunista.
Mentre partiva da Roma, Togliatti aveva le mani libere da impegni ministeriali. Con la nascita del secondo governo De Gasperi, si era spogliato del ministero della Giustizia. Per trasferirlo a un compagno fidato, Fausto Gullo, un avvocato calabrese, a suo tempo tra i fondatori del Pci. Adesso era il partito la prima e unica cura del Migliore. E a Reggio avrebbe dimostrato come intendeva guarirlo da quella che era stata chiamata «la nevrosi del mitra».Togliatti arrivò a Reggio Emilia nella tarda mattinata di lunedì 23 settembre 1946. E si recò a casa del sindaco Campioli che si era offerto di ospitarlo. Qui gli portarono i giornali emiliani e lui cominciò subito a sfogliarli.
Il leader del Pci considerava molto importante la carta stampata, l’unico media efficace allora esistente. Si occupava dell’Unità, il quotidiano del partito, con una cura costante, quasi maniacale. Però leggeva con altrettanta attenzione i fogli avversari. La propaganda comunista li considerava cartaccia. Ma non era questa l’opinione del Migliore.
Tra i giornali che gli portarono a casa di Campioli, trovò di certo gli ultimi numeri della Nuova Penna. Quello di luglio e i due di agosto. Togliatti si rese conto che non era per niente «un libello sedicente indipendente». A bollarlo così era stato il prefetto Chieffo, spesso attaccato dal giornale di Eugenio e di Giorgio che lo ritenevano troppo tenero verso i comunisti.
Togliatti considerò accigliato le prime notizie sulle fosse clandestine scoperte in provincia. E gli ci volle poco per fare due più due. L’omicidio di don Pessina, il delitto Farri, l’emergere delle sepolture segrete, la guerra scatenata dal vescovo Socche, le velleità rivoluzionarie del vertice comunista reggiano e l’esistenza di incontrollabili nuclei di killer rossi: ecco un ginepraio di quelli rognosi. Zeppo di faccende molto pericolose. E foriere di guai anche più pesanti. Dunque s’imponeva un repulisti duro, molto duro.
La purga venne annunciata nell’incontro più importante delle tre giornate reggiane di Togliatti. Si tenne la sera dello stesso lunedì, sempre nell’abitazione di Campioli. Il peso di quel vertice era testimoniato dall’elenco dei dirigenti che il leader del Pci aveva deciso di convocare e di strigliare.
Venivano dalle tre province dove la seconda guerra civile era la più sanguinosa. Oltre a Campioli, c’era il sindaco di Bologna, Giuseppe Dozza. E quello di Modena, Alfeo Corassori. Insieme a loro tre dirigenti della federazione reggiana. Il primo era Nizzoli, il segretario fuori di testa. Insieme a lui, il Migliore aveva voluto incontrare Osvaldo Salvarani e Riccardo Cocconi. Quest’ultimo era un comandante partigiano garibaldino che aveva inutilmente tentato di far accettare da Nizzoli un documento di condanna del delitto Mirotti.
Qualcuno si aspettava di veder arrivare anche l’altro padrone di Reggio: il compagno Didimo Ferrari. Ma per il leader comunista, Eros era soltanto il presidente dell’Anpi, dunque un signor nessuno o quasi. E non si curò di convocarlo.
Togliatti aveva sotto gli occhi il bilancio sanguinoso del dopoguerra in quelle tre province. Si trattava di un conto ancora parziale, per due motivi. Il primo era che l’epoca dei killer trionfanti non poteva dirsi conclusa. Il secondo era che nemmeno il vertice del Pci conosceva con esattezza le dimensioni delle mattanze compiute dopo la liberazione.
Tuttavia, anche i rendiconti incompleti apparivano terrificanti. A Bologna e nella sua provincia risultavano uccise almeno 770 persone. A Modena e nel suo territorio gli assassinati erano 890. A Reggio, infine, le vittime della seconda guerra civile erano 560, e forse di più. In totale i cristiani accoppati risultavano 2220, secondo un calcolo prudente e parziale.
Nel settembre 1946 Togliatti aveva cinquantatré anni, sempre vissuti perigliosamente, soprattutto nella fase dei grandi processi staliniani. In quell’epoca di terrore, Togliatti viveva a Mosca, all’Hotel Lux. E non aveva battuto ciglio neppure quando la polizia segreta sovietica si era portata via suo cognato, Paolo Robotti, e tanti altri comunisti italiani. Tutti compagni poi fatti uccidere da Stalin o mandati a morire nei gulag. Robotti era uno dei pochi a essersi salvato.Sotto la sferza staliniana, il Migliore aveva apprezzato l’importanza del cinismo e della durezza d’animo. Due doti che non gli facevano difetto. E che lo avevano aiutato a superare prove assai più aspre di quella riunione in provincia. Un incontro che lui risolse alla sua maniera: con rapidità e freddezza.
Del vertice a casa Campioli non si seppe quasi nulla. Nessun verbale venne steso. O se ci fu, è sempre stato tenuto segreto. Come segrete rimasero le testimonianze dei presenti nell’alloggio del sindaco di Reggio. Ma è facile immaginare che cosa disse Togliatti, con la sua voce chioccia e il tono gelido del professore che annuncia agli allievi una bocciatura in blocco.
Il primo ordine che impartì fu di smetterla di uccidere. Nessuno dei delitti commessi nelle tre province emiliane era utile al partito. E meno che mai alla rivoluzione, per chi ci credeva. Poi censurò in modo pesante l’operato della federazione di Reggio e della sua struttura periferica. Nell’ipotesi meno grave, non avevano saputo impedire i delitti. In quella più grave, li avevano ordinati e coperti.
Dunque, il Pci reggiano si era macchiato di due colpe pesanti: un’insufficienza assoluta nella vigilanza e una stupidità politica che non ammetteva scuse. Le conseguenze erano inevitabili. Il vertice del partito reggiano doveva essere rimosso. A cominciare dal segretario della federazione. Il repulisti avrebbe avuto una cadenza lenta, per non offrire pretesti alla polemica degli avversari. Ma ci sarebbe stato, entro la fine di quell’anno o al più tardi all’inizio del 1947.
Nizzoli capì che la sua sedia aveva iniziato a scricchiolare. Però accettò le critiche di Togliatti senza reagire. Mantenne la stessa espressione impassibile, quando il segretario del Pci lo censurò in modo aspro, sia pure senza nominarlo. Accadde due giorni dopo, alla Conferenza di organizzazione del partito reggiano. Il Migliore accusò Nizzoli e compagni di aver creato una condizione di disordine insostenibile. I risultati elettorali e del tesseramento attenuavano soltanto di poco il danno politico e d’immagine per il partito. Poi concluse, gelido: «È più facile dirigere un’unità partigiana in combattimento che non una grande federazione di quaranta o cinquantamila iscritti».
Gli effetti della visita reggiana di Togliatti si fecero subito vedere. Gli Squadroni della morte smisero di sparare. E di delitti eccellenti non ne vennero più commessi. Eppure anche questa tregua improvvisa andò a discredito del partito. Infatti apparve a molti un’ammissione di colpa.da ilgiornale
Ho voluto riportare integralmente sul mio blog questi passi tratti dall'ultimo lavoro di Pansa, per ricordare il sangue dei vinti e per sottolineare questo brano tratto dal riformista
Brontola, Giampaolo Pansa, come Barney Panofsky. L’intercalare all’inizio di questa conversazione con il Riformista è lo stesso del protagonista della Versione di Richler: «Cazzo ditelo una volta per tutte quello che è successo in quegli anni tremendi». Si rivolge, l’editorialista del gruppo Espresso-Repubblica, agli eredi del Pci finiti nel Partito democratico e aggiunge: «Veltroni ma anche Franceschini e D’Alema dovrebbero invitarmi al Loft per farmi tenere una lezione sul revisionismo intelligente. Solo così capirebbero perché la gente ancora non si fida di loro. Non si fida anche perché continuano a non dire la verità sulla Resistenza. Non solo: quando hanno poi capito che stavano perdendo le elezioni in Italia e a Roma, hanno rispolverato la retorica dell’antifascismo gridando alla marea nera che stava avanzando. Ma quale fascismo che torna! Basta con queste stupidaggini».
Fabrizio d'Esposito
dailriformista
Forse la guerra civile italiana, dopo la grande vittoria di Berlusconi è finita, forse e anche di questo dobbiamo rendere merito al cavaliere, uno che il suo posto nei libri di storia ormai se lo è assicurato e non è impresa da poco alla faccia dei Travaglio e della restante banda dei 4, gente che sa solo odiare e demolire, biliosa e rancorosa, lupi travestiti da agnelli.Bruta cosa vivere nell'invidia e nel rancore

sabato 5 aprile 2008

Bette Davis Eyes

E ricordandola come dimenticare questa canzone...



Qui sotto, invece recita LEI Bette, in Eva contro Eva



Qui sotto , invece c'è una sorta di the best of Bette Davis



Qui invece recita con Joan Crawford in : What Ever Happened to Baby Jane?



Grande vero?

Bette Davis, 100 anni fa nasceva una "stella"

"She got Greta Garbo stand off sigh, she's got Bette Davis eyes". Sospira come Greta Garbo, ha gli occhi di Bette Davis, così cantava Kim Carnes all'alba degli anni '80. Il ritornello sullo sguardo della leggendaria attrice americana non bastò a rendere immortale il nome della cantante. Fu, però, sufficiente a proiettare ai vertici delle classifiche di tutto il mondo una canzone dalla melodia accattivante, arrangiata con cura. Forse un po' della magia della vecchia star, alla quale stava rendendo omaggio, si era posata anche su di lei. Dopo tutto, l'ultrasettantenne Bette volle incontrare questa sconosciuta artista. Secondo quanto si racconta, infatti, la sua nipotina non aveva mai immaginato di avere una nonna tanto importante e famosa, fino a quando non ascoltò il brano…
La protagonista della canzone di Kim, che sa sospirare come la Garbo e che ha il viso incorniciato da una chioma simile a quella della "bionda di platino" Jean Harlow, della Davis ha, invece, lo sguardo.
Di meglio non poteva prendere. Quegli occhi sporgenti dalla luce ambigua, capaci di sedurre e confondere, sono la prima cosa che balza alla mente, ripensando all'attrice. Per il resto, d'altra parte, non si può dire che fosse una bomba sexy. Una donna minuta, con i lineamenti del viso irregolari, insomma non bella o, per lo meno, non nel senso convenzionale del termine. Al punto che proprio lei, destinata poi a divenire famosa per le battute sprezzanti rivolte agli altri, è oggetto, all'inizio della carriera, di un celebre commento tagliente di David Warner. Come viatico, al momento di scritturarla, il produttore infatti le confida: " Hai il fascino di Stanlio e Ollio messi insieme, ma ti prendo per il tuo talento". E' il 1932 e la giovane attrice ha appena firmato un contratto di sette anni con la Warner Bros.
Per loro realizzerà alcune delle sue più grandi interpretazioni. Segno che David, in fondo, ha visto giusto, almeno sul talento. Quello che, forse, non ha ancora notato è il terribile carattere del suo ultimo acquisto.
Ambigua, pungente, intrattabile, così diversa dalle altre dive, a Hollywood è un corpo estraneo. In un epoca di bambole dolci, remissive e piene di curve, una donna dalla personalità fortissima e indomabile come lei è quasi un'aliena. Ma sa recitare come poche altre e questo la mette subito sulla strada che la porterà a girare oltre cento film e a vincere due premi oscar.
Ruth Elizabeth Davis, al secolo Bette, deve il suo soprannome alla protagonista di La cugina Betta di Honorè de Balzac, che, come qualcuno farà poi notare, mostra alcuni segni caratteriali comuni a quelli dell'attrice. E' la madre, dopo aver letto il libro, ad incominciare a chiamarla con quel nome che le resterà addosso per tutta la vita. Nata il 5 aprile del 1908 a Lowell, Bette Davis scopre la passione per la recitazione dopo aver studiato per qualche anno danza. Respinta dall' Eva LeGallienne's Manhattan Civic Repertory, sempre per via del suo temperamento, si iscrive alla John Murray Anderson's Dramatic School, dove ha Katharine Hepburne per compagna di studi.
Il primo film con la Warner è The Man Who Played God di John Adolfi. Il successo, però, arriva l'anno seguente con Schiavo d'amore, la pellicola che le offre, per la prima volta, il ruolo di donna perfida e glaciale con il quale sedurrà pubblico e critica di tutto il pianeta. L'Oscar, che le viene negato in questa occasione, non tarda comunque ad arrivare. Nel ‘36 vince il premio con Paura d'amare e, tre anni dopo, bissa l'impresa con Figlia del vento. Quest'ultima pellicola la vede protagonista dopo che il ruolo di Rossella O'Hara, in Via col Vento, era stato affidato a Vivien Leight, invece che a lei.
Lasciata la Warner, Bette non interrompe la straordinaria serie di grandi interpretazioni e, nel 1950, realizza quello che alcuni considerano il suo capolavoro: Eva contro Eva. E' un'altra straordinaria prova di talento. L'attrice quarantacinquenne veste, ora, i panni di una star sul viale del tramonto, alle prese con una giovane collega pronta a rubarle la scena. Il film, che le procura una nuova nomination per l'Oscar e una Palma d'oro a Cannes, corona un decennio costellato di successi. E' un apice, però, che segna anche l'inizio del declino. E. per tutti gli anni cinquanta, Bette parteciperà a pellicole di basso livello, arrivando a rifugiarsi sempre più nel teatro.
Nel 1962, è costretta a constatare, con amara ironia, di essere stata quasi estromessa dal mondo del cinema. Lo fa alla sua maniera, pubblicando una sarcastica inserzione su di una rivista specializzata. "Madre di tre bambini di 10, 11 e 15 anni-scrive- divorziata, americana, trent'anni di esperienza come attrice cinematografica, versatile e più affabile di quanto si dica, cerca impiego stabile a Hollywood. Bette Davis, c/o Martin Baum, Gac. Referenze a richiesta".
La sua carriera sembra ormai giunta al capolinea, invece, anche se lei ancora non lo sa, la rinascita artistica è dietro l'angolo. Nello stesso anno, infatti, viene chiamata ad interpretare Che fine ha fatto Baby Jane?,capolavoro del grand-guignol cinematografico a metà strada tra dramma e horror. Ironia della sorte, Bette si trova a recitare a fianco dell'odiata Joan Crawford che aveva, a suo tempo, liquidato con una terribile battutaccia. "A parte il cane Lassie- aveva sentenziato- è stata a letto con tutti i maschi della Mgm".
Nel ruolo dell'ex-bambina prodigio instabile , sull'orlo della follia, che vessa la sorella paralitica, la Davis mette in mostra ancora una volta la sua bravura, ritrovando applausi e consensi in tutto il mondo.
Negli anni a venire si dividerà tra cinema e televisione. Gira un altro film vicino al filone horror (Piano… piano, dolce Carlotta), e partecipa perfino ad una produzione italiana: Lo scopone scientifico. Nel cast figura anche Alberto Sordi, che lei , tanto per non smentire la fama di donna difficile e bisbetica, non esita a definire "antipatico, maleducato e provinciale".
Negli anni della vecchiaia deve fare i conti con una salute fragile. Operata di tumore al seno nell'83, viene poi colpita da un ictus e da un infarto. Tutto questo non le impedirà di recitare fino alla fine, partecipando ancora, nel 1988, al film Strega per un giorno. Neanche un anno dopo muore a Parigi. E' il 6 ottobre 1989.
All'anziana attrice, però, il destino, prima di far calare il sipario, aveva concesso un ultimo applauso. Il tempo di ritirare un premio alla carriera che, pochi giorni prima, le era stato assegnato dalla giuria del Festival di San Sebastiano.di Marco Barbonaglia da
Ilsole24ore
Bella Bette Davis non era certamente e, in più il suo modo di porsi sempre ribelle, autoritario, arrogante in un certo senso , mai compiacente, nè servizievole, certamente non le procurava simpatie, oltretutto, quando voleva era davvero maledettamente brava.Non tutti i suoi film mi sono piaciuti, in qualcuno interpretava parti mielose, lacrimevoli, avrebbe dovuto rappresentare la moglie magari un filino capricciosa, ma perfetta , insomma tutti caratteri che non erano nelle sue corde.Per esempio nella Figlia del vento non mi è piaciuta affatto: bamboleggiava troppo nella parte di una donna ammiratissima e corteggiatissima.Per me era fuori ruolo perchè certamente non aveva nè la grazia, nè l'impertinenza, nè la luminosa bellezza di uno splendido incarnato su cui spiccavano i magnetici, famosissimi, occhi verdi di Vivien Leight.Devo dire che i produttori di Hollywood avevano buon naso. Bette sarebbe stata ridicola nell'interpretazione di una femme fatale, arrampicatrice sociale ma con un fascino fresco e frizzante, una ragazza provinciale in carriera terribilmente intrigante , maliarda e bugiarda, che , però,è troppo deliziosa per non essere ammirata.
Era troppo intelligente Bette, conscia del suo talento, troppo indipendente per poter riuscire in certe parti che i registi riservavano alle eroine femminili dei loro film.Non oso immaginare il rapporto che avrebbe avuto con i registi di oggi e soprattutto con i produttori di oggi che preferiscono fare soldi a palate con bambole siliconate dall'intelligenza e talento impalpabili, piuttosto che puntare su attrici decisamente bruttine, ma di temperamento, bravissime nella difficile arte della recitazione .E del resto oggi "recita" una Bellucci per cui credo che Bette avrebbe veramente fatto fatica ad emergere, anche se sono certa che sarebbe comunque riuscita ad imporsi, tropo brave e grintosa per non riuscire.Qui c'è la sua biografia, e Qui c'è la sua filmografia: ne ha girati tanti di film,non tutti riusciti , ma tutti in un certo senso illuminati dalla sua presenza, dai suoi grandi e vellutati occhi che scavavano dentro ,anche quando era clamorosamente fuori parte.Il film in cui mi è piaciuta di più è stato il grandioso Eva contro Eva in cui era perfetta per la parte e giganteggiava su tutti gli altri coprotagonisti con una bravura inarrivabile, era Bette Davis del resto che , iniziando il viale del tramonto intepretava Bette Davis, non improbabili bambole durante la guerra di secessione o donne capricciose che cambiano con l'amore e muoiono per un tumore cerebrale.E mi è piaciuta molto anche in Angeli con la pistola, bellissima pellicola di quel grande affabulatore che era Frank Capra, il mio regista americano preferito per come sapeva mascherare da favole il malcostume, la grettezza,la corruzione, il razzismo dell'America provinciale dei suoi tempi che in parte è la stessa di ora.Bette intepretava con classe ed eleganza il ruolo di una vecchia mendicante con una figlia che non sapeva che la madre fosse una povera barbona.
A ripensarci: che cinema quello dei tempi di Bette Davis, raccontava storie, commuoveva, faceva ridere, faceva pensare, aveva attori fantastici...cosa è rimasto ora di quel cinema nei nostri tempi in cui dominano gli effetti speciali, le bombe del sesso che non sanno recitare una battuta e i fantoccini palestrati?

venerdì 28 marzo 2008

Chopin Nocturne Op. 9 n. 2


Serata malinconica questa, anche se finalmente è venerdì..il tempo passa inesorabilmente e si vorrebbe fare tanto, costruire tanto,realizzare tanto...non è possibile, la realtà è quella che è, dura, fredda e lacerante..Cosa può lenire la malinconia ed accarezzare il cuore?Ma un notturno di Chopin struggente e dolcissimo come questono?Una soffice nuvola di musica su cui adagiarsi e sognare..

Studiare, per almeno 12 anni, allunga la vita

Si vive sempre di più, ma sembra che a beneficiare di questo trend siano solo i più colti e istruiti. Per la precisione, quelli che hanno studiato almeno 12 anni. E' il risultato di uno studio americano, firmato dai ricercatori dell'Harvard Medical School e dell'Harvard University, pubblicato sul Journal of Health Affairs e ripreso da Repubblica Salute.

«Gli studiosi del gruppo di David Cutler - si legge nell'inserto settimanale - hanno scoperto che chi studia per oltre 12 anni ha un'aspettativa di vita significativamente più lunga, rispetto a quanti non sono andati oltre le superiori. "Ci piace pensare - afferma Cutler - che, se un Paese diventa più sano e longevo, tutti ne beneficino. Ma noi abbiamo scoperto che non è proprio così"».

«Per fotografare il fenomeno - conclude Repubblica Salute - il gruppo ha combinato i dati relativi ai certificati di morte, con il censo stimato e i numeri dello studio nazionale americano sulla mortalità. Così, restringendo le analisi alla popolazione bianca e ispanica, il team ha creato due serie separate di dati, una relativa agli anni 1981-88 e l'altra al 1990-2000. In tutti e due i periodi l'aspettativa di vita negli Stati Uniti è aumentata per chi aveva fatto oltre 12 anni di studio, restando praticamente stabile per chi ne aveva fatti di meno.da
edott.it
Interessante questo studio,anche perchè si sa che studiare, mettere in moto le cellule grigie, ritarda l'involuzione senile del cervello e fa conservare più a lungo raziocinio e lucidità.Chissà se anche in Italia esiste lo stesso fenomeno, anche perchè c'è da chiedersi quanti da noi continuano a studiare ed aggiornarsi per lungo tempo..Chissà..Ho il timore che troppi da noi facciano ben altro, tipo rimbambirsi al PC o ascoltanto l'iPod