venerdì 28 marzo 2008

Chopin Nocturne Op. 9 n. 2


Serata malinconica questa, anche se finalmente è venerdì..il tempo passa inesorabilmente e si vorrebbe fare tanto, costruire tanto,realizzare tanto...non è possibile, la realtà è quella che è, dura, fredda e lacerante..Cosa può lenire la malinconia ed accarezzare il cuore?Ma un notturno di Chopin struggente e dolcissimo come questono?Una soffice nuvola di musica su cui adagiarsi e sognare..

Studiare, per almeno 12 anni, allunga la vita

Si vive sempre di più, ma sembra che a beneficiare di questo trend siano solo i più colti e istruiti. Per la precisione, quelli che hanno studiato almeno 12 anni. E' il risultato di uno studio americano, firmato dai ricercatori dell'Harvard Medical School e dell'Harvard University, pubblicato sul Journal of Health Affairs e ripreso da Repubblica Salute.

«Gli studiosi del gruppo di David Cutler - si legge nell'inserto settimanale - hanno scoperto che chi studia per oltre 12 anni ha un'aspettativa di vita significativamente più lunga, rispetto a quanti non sono andati oltre le superiori. "Ci piace pensare - afferma Cutler - che, se un Paese diventa più sano e longevo, tutti ne beneficino. Ma noi abbiamo scoperto che non è proprio così"».

«Per fotografare il fenomeno - conclude Repubblica Salute - il gruppo ha combinato i dati relativi ai certificati di morte, con il censo stimato e i numeri dello studio nazionale americano sulla mortalità. Così, restringendo le analisi alla popolazione bianca e ispanica, il team ha creato due serie separate di dati, una relativa agli anni 1981-88 e l'altra al 1990-2000. In tutti e due i periodi l'aspettativa di vita negli Stati Uniti è aumentata per chi aveva fatto oltre 12 anni di studio, restando praticamente stabile per chi ne aveva fatti di meno.da
edott.it
Interessante questo studio,anche perchè si sa che studiare, mettere in moto le cellule grigie, ritarda l'involuzione senile del cervello e fa conservare più a lungo raziocinio e lucidità.Chissà se anche in Italia esiste lo stesso fenomeno, anche perchè c'è da chiedersi quanti da noi continuano a studiare ed aggiornarsi per lungo tempo..Chissà..Ho il timore che troppi da noi facciano ben altro, tipo rimbambirsi al PC o ascoltanto l'iPod

sabato 22 marzo 2008

Pasqua di gioia - 2008


Buona Pasqua a Tutti.Cristos Anesti!

giovedì 20 marzo 2008

I 70 ANNI CHE TENCO NON HA VISSUTO

ROMA - Chissà come sarebbe oggi, a 70 anni, Luigi Tenco. Li avrebbe compiuti tra due giorni, il 21 marzo. Ma uno sparo alla testa in una squallida camera d'albergo di Sanremo nel 1967 ha interrotto la sofferta esistenza di uno dei maggiori cantautori della musica italiana. Restano le sue canzoni senza tempo e quell'immagine di poeta maledetto che ci hanno accompagnato in questi anni.
Il suo messaggio è stato raccolto dal Club a lui titolato, cui hanno partecipato i più grandi cantautori degli ultimi decenni: da Paolo Conte a Guccini, da Paoli a Lauzi, da De André a Endrigo, Gaber, Fossati e De Gregori. Una rassegna della canzone d'autore nata proprio a Sanremo, a soli cinque anni da una morte sulla cui dinamica si sono accavallati dubbi per 38 lunghi anni. Dubbi definitivamente sciolti solo dopo la riesumazione della salma, nel dicembre 2005, suffragando così la tesi del suicidio.
"Signori benpensanti spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte, che all'odio e all'ignoranza preferirono la morte", scrisse Fabrizio de André in Preghiera in gennaio, dedicata nel 1967 all'amico scomparso. Nato a Cassine, in Piemonte, ma trapiantato in Liguria, Tenco non ha mai conosciuto suo padre, morto in circostanze mai chiarite prima della sua nascita. La sua prima band si chiama Jerry Roll Boys Jazz band, dove Bruno Lauzi suona il banjo. Ma é con il gruppo de I Cavalieri che Tenco, con lo pseudonimo di Gigi Mai, esordisce nel mondo discografico.
E' il 1959 e tra i membri c'é anche un giovanissimo Enzo Jannacci. Devono passare due anni prima che adotti il suo vero nome: lo fa per l'uscita del primo singolo come solista, I miei giorni perduti. La vita artistica di questo contestatore ante-litteram non è facile: a partire da Cara maestra ("un giorno m'insegnavi che a questo mondo noi siamo tutti uguali/Ma quando entrava in classe il direttore tu ci facevi alzare tutti in piedi/e quando entrava in classe il bidello ci permettevi di restar seduti"), che non viene ammessa all'ascolto dalla Commissione per la censura e gli causa un allontanamento di due anni dalle trasmissioni Rai. Anche Io sì e Una brava ragazza vengono bloccate dalla censura.
Tenco, autore tra l'altro di Vita Famigliare, brano ironico contro gli anti-divorzisti, ha maggior fortuna con l'innocua Un giorno dopo l'altro, che viene addirittura adottata, nel '66, come colonna sonora di uno sceneggiato televisivo di grande successo, Il commissario Maigret. Poeta sospeso tra evasione e impegno, ma anche grande seduttore, Tenco era molto sensibile alla bellezza femminile, cosa che gli procuro' non pochi problemi. Come la rottura dell'amicizia con Paoli, a causa della sua relazione con la ex del collega, Stefania Sandrelli. Un'altra rivalità, per via di Gabriella, Luigi l'ebbe con un altro amico, il cantautore Piero Ciampi. Tuttavia, nonostante piacesse molto alle donne, aveva un rapporto conflittuale con l'altra metà del cielo: "Una volta - ha ricordato Nanni Ricordi - mi parlò di una bellissima notte trascorsa con una donna. Mi disse che lei gli aveva sussurrato 'mi piace tanto fare l'amore con té. Lui si era risentito: 'devi dire mi piace fare l'amore. Non aggiungere 'con te'. Così personalizzi la cosa".
La questione dei suoi rapporti con Dalida, con cui si era esibito a Sanremo in 'Ciao amore, ciao' e che trovò il corpo senza vita del cantautore, è stata a lungo dibattuta: per alcuni si sarebbero dovuti sposare subito dopo il Festival, per altri lei innamorata del bel tenebroso cantautore italiano, mentre lui non vedeva l'ora di riunirsi alla misteriosa Valeria. A dimostrarlo sarebbero varie lettere pubblicate nel 1992. In una di queste, datata 16 gennaio 1967, alla vigilia del Festival, le scrisse: "Appena avrai discusso la tesi ...andremo in Africa, in Kenia ...avremo i giorni e le notti tutte per noi... Potremo - conclude Tenco undici giorni prima di morire - riscoprire il senso della vita".di elisabetta.malvagna@ansa.it da ansa.it
Grande periodo per la canzone italiane fu quello in cui visse, operò e tragicamente morì Luigi Tenco , che credo fosse con De Andrè, il migliore della sua generazione, più intimo e lacerante direi, ancora meno commerciale di Fabrizio,perchè le sue canzoni non erano orecchiabili, di quelle che si canticchiano mentre si fa qualcosa.Era un bel tenebroso che componeva canzoni in grado di graffiare l'anima, originali, mai banali, capaci di cullare la tristezza del tran tran quotidiano, quello che ammazza dentro, come pochi.La sua morte tragica, come sempre accade ne ha fatto un immortale nella storia della nostra musica leggera, in cui occupano un posto importante canzoni che precorrevano i tempi e che, come tali, non potevano essere di facile impatto su un pubblico cui piacevano le musice orecchiabili, le canzoni all'italiana, tutte confezionate allo stesso modo, da cantare con voce potente come quella di Claudio Villa o con la dolcezza alla vaselina di un Tajoli o di una Nilla Pizzi.Tenco cantava il male di vivere, la paura di fallire nella vita, la ricerca di un amore che scaldasse in cuore, sincero, vero.Ricordo la sigla dello sceneggiato Maigret con Gino Cervi e cioè Un giorno dopo l'altro....struggente
Un giorno dopo l'altro
il tempo se ne va
le strade sempre uguali,
le stesse case.
Un giorno dopo l'altro
e tutto e' come prima
un passo dopo l'altro,
la stessa vita.
E gli occhi intorno cercano
quell'avvenire che avevano sognato
ma i sogni sono ancora sogni
e l'avvenire e' ormai quasi passato.
Un giorno dopo l'altro
la vita se ne va
domani sarà un giorno uguale a ieri.
La nave ha già lasciato il porto
e dalla riva sembra un punto lontano
qualcuno anche questa sera
torna deluso a casa piano piano.
Un giorno dopo l'altro
la vita se ne va
e la speranza ormai e' un'abitudine.

E che dire di Lontano Lontano?Per me è un grande capolavoro che, oltetutto la sua voce irregolare, sghemba, rauca e dolente, rendeva ancora più coinvolgente..
E lontano, lontano nel tempo
qualche cosa negli occhi di un altro
ti farà ripensare ai miei occhi,
i miei occhi che t'amavano tanto.
E lontano, lontano nel mondo
in un sorriso sulle labbra di un altro
troverai questa mia timidezza
per cui tu mi prendevi un po' in giro
E lontano lontano nel tempo
l'espressione di un volto per caso
ti farà ricordare il mio volto,
l'aria triste che tu amavi tanto.
E lontano, lontano nel mondo
una sera sarai con un altro
e ad un tratto chissà come e perchè
ti troverai a parlargli di me
di un amore ormai troppo lontano ....

E' una grande canzone che fa male al cuore, ma lo fa palpitare e gemere ugualmente, anche se non ha una rima che si bacia con amore:Luigi Tenco , la sua arte, la sua musica è illustrata proprio in questa bellissima commovente canzone e da tante altre
Eccole...cantata da lui...da brividi



martedì 18 marzo 2008

Monteverdi - L'Orfeo - Savall



Bellissimo vero?A primavera la musica è ancora più bella non credete?

Jordi Savall - Lamento Della Ninfa

Ecco nel filmato si può ascoltare il bellissimo Lamento della Ninfa, del grandissimo Claudio Monteverdi.Ecco il testo
Non havea Febo ancora recato al mondo il dì, ch'una donzella fuora del proprio albergo uscì. Sul pallidetto volto scorgeasi il suo dolor, spesso gli venia sciolto un gran sospir dal cor. Sì calpestando i fiori errava or qua, or là, i suoi perduti amori così piangendo va: "Amor", dicea, il ciel mirando, il piè fermò, "Dove, dov'è la fè che'l traditor giurò?" Miserella, ah più no, no, tanto gel soffrir non può. "Fa che ritorni il mio amor com'ei pur fu, o tu m'ancidi, ch'io non mi tormenti più. Non vo' più ch'ei sospiri se non lontan da me, no, no che i martiri più non darammi affè. Perchè di lui mi struggo, tutt'orgoglioso sta, che si, che si se'l fuggo ancor mi pregherà? Se ciglio ha più sereno colei che'l mio non è, già non rinchiude in seno amor si bella fè. Nè mai sì dolci baci da quella bocca avrai, nè più soavi, ah taci, taci, che troppo il sai." Sì, tra sdegnosi pianti, spargea le voci al ciel; così nei cori amanti mesce amor fiamma e gel.
Ascoltate la voce purissima del ninfa cui fanno da contraltare voci altrettanto modulate e intensissime.
Nel Lamento della Ninfa, il tempo di passacaglia* culla il testo, cantato con precisione , secondo le di Monteverdi prevedevano che " Le tre parti, che cantano fuori del pianto della Ninfa … si cantano al tempo della mano; … il pianto di essa … va cantato a tempo dell’affetto del animo, e non a quello della mano".
Non è im massimo quesat registrazione di You tube, ma sottolineo che in essa suona il grandissimo Jordi Savall.Egli è suonatore di viola e direttore catalano. E' una delle maggiori personalità della musica antica sin dagli anni '70 ed il maggior esponente di interpretazioni per solo viola da gamba. Il suo repertorio copre i periodi che vanno dal Medioevo fino al tardo Barocco. La sua popolarità è dovuta inoltre al film Tous les matins du monde, del quale ha curato la colonna sonora.La sua biografia è QUI

*Passacaglia:"La passacaglia (in francese Passacaille) è una forma musicale basata sulla variazione continua su di un basso, in un ritmo di 3/4. Il nome deriva dallo spagnolo e significa passare il calle, cioè la strada, termine che tradisce la provenienza popolare da musicisti girovaghi. Viene spesso confusa con la ciaccona. La passacaglia prevede una linea melodica che può fungere alternativamente da basso (e in questo caso suggerisce l'armonia), da canto (e quindi può essere armonizzata in modi diversi) o da parte interna. La ciaccona, invece, prevede una serie di variazioni su un basso che soggiace a una regola ferrea: si muove dalla tonica alla dominante, con moto ascendente o discendente, cromatico o diatonico. A volte può anche essere sottinteso, dato che l'armonia realizzata dalle voci superiori ne fa comunque percepire la presenza.Originariamente era una danza popolare, ma nel periodo barocco è stata praticamente monopolizzata dalla musica colta diventando una forma molto utilizzata nei più disparati contesti. Addirittura un celebre passo di Passacaglia, La Follia di Spagna, divenne uno dei temi più in voga in tutta l'Europa barocca, e numerosissimi compositori si sono cimentati a musicarlo (per esempio Arcangelo Corelli, Jean-Baptiste Lully, Marin Marais, Antonio Salieri e Sergej Rachmaninov)."da
Wikipedia

sabato 15 marzo 2008

Er cinema italiano fa schifo e gli inglesi ce lo dicono in faccia

Er cinema de Stato, er cinema dei cinematografari impegnati e de sinistra, quelli che insorgono e gridano all’emergenza “curturale” se qualcuno gli dà dei marchetteri mantenuti dai politici con i soldi dei contribuenti. Il cinema italiano che da un pezzo non ha più nulla da dire. Eccolo qui, raccontato come si deve dal quotidiano inglese
The Guardian:
The Italian industry is surely still regarded with envy by many other EU member states - Lithuania, say, or Luxembourg. It boasts a healthy output and an eclectic crop of distinctive directors, ranging from the icy Paolo Sorrentino to the clownish Roberto Benigni and the mercurial Nanni Moretti, who won the 2001 Palme d'Or for his family drama The Son's Room. It is simply that Italian film lacks the impact and the global reach that it enjoyed in the days of Rossellini, De Sica, Antonioni, Bertolucci and the Taviani brothers. (...)
Two decades ago, Italians bought twice as many cinema tickets as they did in Spain. Now the Spaniards have overtaken them. Italian cinema has a long and illustrious history, and now is not the time to start talking in terms of a decline and fall - we are not quite in Gibbon territory yet. But the industry gives the impression of being tired and scattered, struggling to find its voice. It sorely needs another neorealist-style renaissance - a local, specific flowering that speaks to the world at large.
Post scriptum. Non è (solo) una questione di politica. Il cinema italiano del dopoguerra è stato fatto soprattutto da gente di sinistra. Ma erano persone che avevano un’idea artigianale del loro mestiere, e infatti hanno realizzato tanti capolavori. I loro epigoni contemporanei, tristi e presuntuosi (pochissime le eccezioni), pensano di usare ogni inquadratura per svelarci chissà quale verità profonda. Non raccontano storie (non lo sanno fare), ma insistono per dirci tutto dei loro tormenti, tengono a farci sapere cosa ne pensano del mondo. Se il pubblico se ne frega, come accade sempre più spesso, danno la colpa all’imbarbarimento dei gusti e alla "cattiva maestra" televisione. Ragionano come i governanti della Germania Est, ai quali Bertolt Brecht destinò una delle sue battute più perfide: «Non gli resta che sciogliere il popolo e nominarne uno nuovo». Finché continuano a essere mantenuti con i nostri soldi, però, hanno ragione loro.
Da conservativemind
In effetti c'è tantissimo da dire su questo argomento.I grandi registi italiani del dopoguerra erano quasi tutti di sinistra ma erano veri talenti che si affermarono per le loro capacità, non perchè avevano sostegni statali che consentissero loro di girare film indottrinati, noiosissimi, francamemnte inguardabili.Basta fare un piccolo confronto tra i film di questi talenti, anche di quelli che venivano considerati come degli artigiani del cinema, e quelli di pseudointellettuali cineasti che affliggono attualmente il cinema italiano,Moretti in primis.Eppure credono tutti di essere geni incompresi e tacciano il pubblico di essere formato da ignoranti idioti cresciuti a pane e tv commerciale di Berlusconi che li ha diseducati.Incredibile vero?Eppure è proprio così.Ho visto in questi giorni un film di un regista osannato da certo intellettualume radical chic e cioè Paolo Sorrentino.Il film in questione era L'amico di famiglia.
Qui ci sono altre recensioni.A leggere fra le righe si capisce che i cosiddetti critici( tutti schierati a sinistra o quasi) non hanno apprezzato molto questo film cupo, brutto, claustofobico, girato male e raccontato peggio.Il regista non racconta una storia, vuole raccontare il mondo, un certo mondo in cui vive e si arrabbatta gente meschina, volgare, interessata, brutta fuori e dentro oppure bella fuori ma orribile dentro, un mondo in cui non c'è salvezza dallo squallore del vivere quotidiano.Ma quello che vuole dimostrare il regista non prende lo spettatore che è solo disgustato e annoiato a morte.Altri registi, per dire uno Chabrol,avrebbero raccontato il tutto molto meglio, senza essere didascalici e senza dare l'idea di essere dei predicatori da quattro soldi, del tipo che il danaro corrompe e rende laidi e rivoltanti.Scusate ma questo film mi ha irritato come mi irritò e molto Le Conseguenze dell'amore, il film osannatissimo di Sorrentino che aveva un solo pregio, la grandissima recitazione di un ispiratissimo Tony Servillo.Se questo Paolo Sorrentino che gira film incapaci di raggiungere un vero successo popolare,di emozionare e di colpire al cuore il pubblico è un grande regista italiano, io sono Napoleone .Diciamocelo IL CINEMA E' PER TUTTI, quando lo si vuol far diventare per pochi eletti illuminati, beh allora siamo fuori strada ,diceva un certo Sergio Leone, uno che il cinema lo sapeva fare e che ha avuto grande successo, di critica e di pubblico


giovedì 13 marzo 2008

How to Marry a Millionaire



Grande Marylin in questo film del 1953,la classica commedia brillante americana in cui interpretava con grande efficacia la parte dell'ingenua-timida-sexy finta oca in cerca del pollo milionario.
Ogni riferimento a persone e fatti reali non è puramente casuale.Un grazie al blog Riflessi di Tana della mia amica Tana ,per l'ispirazione

Renoir, a Roma la sua maturità d'artista

In scena, a Roma, la maturità classica e moderna di Pierre-Auguste Renoir. Un periodo, di quasi quarant'anni, segnato dai viaggi e dai soggiorni in Italia, meno indagato rispetto alla stagione impressionista, ma altrettanto ricco di valori e di fascino. E così, su il sipario su capolavori come La baia di Napoli con il Vesuvio sullo sfondo (1881), il Cappello appuntato (1892), senza scordare Fanciulle al piano (1889) e Ballerina con velo (1915), a testimonianza della grande vitalità e profondità del nuovo percorso artistico intrapreso dal maestro francese, segnato dal superamento della parentesi impressionista e consacrato all'elaborazione di una rappresentazione, in chiave moderna, dell'eterno e dell'atemporale. È questo il filo conduttore della mostra «Renoir. La maturità tra classico e moderno», a Roma, fino al 29 giugno 2008, al complesso del Vittoriano.
Circa 130 bellissimi capolavori, tra oli, opere su carta, incisioni, controstampe da pastelli e sculture. «La mostra - spiega il ministro per i Beni culturali Francesco Rutelli - vuole seguire il percorso artistico di Renoir in Italia, dall'iniziale disorientamento al successivo entusiasmo per un mondo che non è più soltanto quello dei musei che ha frequentato fin da ragazzo a Parigi, ma anche quello delle decorazioni parietali visibili nelle basiliche, nei palazzi papali, nelle ricche dimore dell'antichità e del Rinascimento». Impressioni, prosegue Rutelli, che saranno destinare a restare nella sua pittura: «la luminosità del nostro cielo si salda, nel suo immaginario, ai colori degli affreschi classici e cinquecenteschi, assecondando, insieme all'amore per l'opulenza della natura e della vita, l'emozionante scoperta di una grande pittura».
L'esposizione, curata dalla storica dell'arte e già director of education alla National Gallery di Londra, Kathleen Adler, affronta tutti i grandi temi artistici e poetici di Renoir: i ritratti di bambini e ragazzi, la natura morta, i paesaggi, le bagnanti dai capelli lunghi, le persone nel loro ambiente quotidiano. «L'artista - sottolinea la curatrice della mostra - amava ritrarre le persone, dipingere mazzi di fiori colorati o paesaggi luminosi e, soprattutto, quando ritraeva ragazzi, chiedeva sempre loro di giocare, leggere o suonare anziché stare fermi e immobili ad annoiarsi».
L'Italia fu per Renoir una vera rivelazione. All'età di quarant'anni, il maestro francese inizia a viaggiare nel nostro Paese, sosta a Venezia, Roma e Napoli, raggiunge, poi, la Calabria e la Sicilia e si rende conto della straordinaria qualità di pittori che, pur non avendo, come gli impressionisti, dipinto le loro opere all'aperto, sono riusciti egualmente a catturare la luce. Per il pittore, che diceva di essere «figlio di madre natura e padre museo», ammirare l'arte dei grandi maestri, richiamarsi alla tradizione, dall'antichità classica alle opere di Raffaello, fu quasi un fatto naturale, una realtà ineludibile. Dopo il soggiorno nel Belpaese il suo stile cambiò drasticamente, inizialmente divenendo più lineare, secco, e facendosi, poi, negli ultimi anni, più delicato e stilizzato. Sono di questo periodo, alcuni, tra i suoi più importanti capolavori, come La baia di Napoli, 1881: un dipinto con una grande strada piena di persone che passeggiano e carrozze trainate da cavalli. Nella baia, spumeggiante, navigano le barche a vele, con uno stupendo panorama sullo sfondo: le case bianche di Napoli e il Vesuvio color violetto.
Tutto l'articolo, che è abbastanza lungo, ma molto bello ed esplicativo, lo si potrà leggere
QUI
Renoir ha sempre dipinto le donne credo con una particolare attenzione e ammirazione.Le sue sono donne burrose, morbide, l'apoteosi della femminilità e della carnale sensualità.Certo che nel nostro tempo, donne donne di questo tipo sarebbero considerate bruttarelle, troppo grasse, pesanti, lontane dai canoni di bellezza attuale che inneggiano a donne spesso troppo magre (vedi la Jolie e Victoria Beckam), rampanti, in carriera anche se sono casalinghe per forza o per vocazione, che hanno perso un poco della loro aura di grande sensualità e e spontaneità.Vi immaginate queste donne vestite dai nostri stilisti?E vi immaginate quante di loro sarebbero impazzite per debellare la loro cellulite, magari facendosi pure mungere da una Vanna Marchi o da chirurghi senza scrupoli?Ovviamente i gusti cambiano con il tempo, ma queste donne sprizzano vita da tutti i pori..grasso nello specifico è bello...o quasi perchè queste tele sono, in ogni caso , dei capolavori di un grande pittore







Il resto della gallery è QUI

martedì 11 marzo 2008

Eccolo Marlon Brando in Giulio Cesare 1953

Ecco l'orazione strepitosa di un supersexy grandioso Marlo Brando-Marco Antonio.E' la famosa orazione di BRUTO E' UN UOMO D'ONORE


Fantastico vero?

I 10 divi più sexy di tutti i tempi

La rivista americana Premiere ha pubblicato la classifica dei 100 divi più sexy di tutti i tempi.Ai primi tre posti ci sono Marilyn Monroe, Marlon Brando e Brigitte Bardot.
Fra i primi cinque c'è solo una star del cinema attuale: Angelina Jolie, quinta, il suo compagno Brad Pitt è nono. Completano l'elenco dei primi dieci, James Dean (sesto), Sean Connery (settimo) Raquel Welch (ottava) e Halle Berry (decima). Ci sono anche cinque italiani, Rodolfo Valentino (quarto), Sophia Loren (19/ma), Monica Bellucci (48/ma), Gina Lollobrigida (54/ma), e Claudia Cardinale (77/ma)daPanorama.it
Mah De Gustibus non est disputandum.I primi tre ci possono certamente stare, sono dei veri mostri sacri , con una bellezza genuina, non sformata da silicone, botulino, nè modellata da bisturi d'oro.Marilyn era una icona della sensualità e illumina tutti i film a cui ha partecipato tanto che non si riesce a credere che fosse tanto tormentata, lunatica, insicura, triste, difficile da gestire per i suoi ritardi cronici che facevano impazzire i registi.Era una vera diva, l'ultima delle dive.E che dire del mitico Marlon Brando?Era magnetico, bucava lo schermo.Ricordo che in uno spot televisivo tra gli ultimi da lui girati, troneggiava su una montagna dando dei punti per quanto attiene presenza scenica e glamour persino al giovane, pur bravissimo Leonardo di Caprio.Di Marlon Brando ricordo molte interpretazioni di gran classe ma in cui era sexy da morire: il Selvaggio,Giulio Cesare(un Marco Antonio bellissimo e oltremodo sexy nella sua fantastica arringa che è un crescendo rossiniano di retorica al sangue)Fronte del porto, I giovani leoni (biondissimo, improponibile con quel colore ma un dio tedesco modello Wagner)Un tram che si chiama desiderio e così via.Inutile ricordare, poi, il Marlon di Ultimo Tango a Parigi, maturo, ma ancora di un bello da togliere il fiato e taccio della bravura.Persino nella parte dolente , drammatica del colonnello Kurtz Cuore di tenebra, in Apocalipse now era bello, inteso,eccezionale, sexyssimo.Brigitte Bardot invece è stata una icona sexy dei suoi tempi, la classica francesina tutto pepe, intrigante, piccante che fa impazzire gli uomini.BB era proprio sexy..brava lo era molto meno.Non capisco la posizione della Jolie che non è la classica bellezza sexy, troppo volgare e scontata nelle sue interpretazioni.E neanche capisco il nono posto per Bad Pitt, un bietolone ipervitaminizzato, con recitazione monocorde, stile statua di sale.
Leggo che anche James Dean è in classifica, ma per me era molto più sexy Montgomery Clift.Trovo che avrebbero dovuto essere classificati nei primi posti anche Cary Grant (delizioso), Gary Cooper e l'intrigante George Clooney.Per quanto attiene gli italiani, credo che Mastrioanni ci potesse stare.Constato che tuttora la Loren e la Lollobrigida si difendono molto bene.Eccepirei sulla Bellucci: bellissima è bellissima ma recita tanto male che è sexy come un baccalà bollito e senza olio e sale
Guardate Marilyn


Guardate la Bardot..torbida e sexy al top



E fate un raffronto con la Jolie...una patata è più sexy

domenica 9 marzo 2008

Erin Brockovich :quando un film è trasmesso l'8 marzo, festa della donna

Ieri cadeva la cosiddetta Festa della donna, festeggiata, peraltro, in un mondo in cui il maschilismo becero e il femminismo coccodè vuoto , tutto apparenza e niente sostanza,hanno fatto la festa alle donne comuni, nel senso che, ancora una volta ne hanno capestato valori, speranze vere, aspettative vere.Non so se per scelta o per caso, ieri sera davano in Tv un film diciamo di impegno civile che raccontava la storia di una donna, per giunta con le gonne e con le gambe lunghe e affusolate di Julia Roberts, ma anche con tanto cervello e voglia di fare.In questo film si racconta la storia vera di una madre trentenne di tre bambini, nubile dopo due divorzi, che, segretaria precaria di uno studio legale a Los Angeles, indaga sulla Pacific and Gas Company che ha contaminato le falde acquifere di una cittadina californiana, provocando tumori e altre patologie gravi ai residenti ignari, cui , anzi, era stato detto che l'acqua non era inquinata, non faceva male. Il film non è un granchè e devo dire che neanche l'interpretazione della Roberts è eccezionale, infatti Julia bamboleggia troppo e non da una vera vis tragica al suo personaggio:troppo sorrisi fuori luogo a 57 denti.
Oltretutto il film dopo circa un'ora diventa monotono, petulante, pesante, ma questo credo sia una della caratteristiche dei film di Steven Soderbergh
che è un regista che non mi ha mai convinto e i cui film mi lasciano sempre molto perplessa.Il suo cinema di denuncia , infatti non ha mai grande pathos, è impalbabile ed incapace di avvincere lo spettatore.Il motivo per il quale parlo di questo film, oggi, è proprio in relazione alla inutile festa della donna che non avrebbe motivo di esistere in un mondo equo e solidale e che è stata messa su solo per prendere ancora più in giro le donne, cosa che a sinistra cercano di fare sempre ,ovunque e comunque.Io festeggierò questo giorno se, magari il giorno dopo cadrà la festa dell'uomo..via almeno in questo vogliamo una certa parità dei sessi, o no?Eppure il film trasmesso ieri da dei messaggi importanti in un momento in cui la battaglia etica di Giuliano Ferrara, pur molto contrastata dai soliti progressisti nemici della vita e delle donne ( non è un paradosso il mio)sta facendo, quantomeno discutere il paese.Erin è una donna sola, vive da sola ed ha tre figli che cerca di crescere al meglio.Non ha aiuti di sorta da uno Stato molto liberale come l'America che non tutela affatto i più deboli.In più Erin è una ex reginetta di bellezza:potrebbe fare una scelta comoda questa tosta ragazza in lotta con una vita che non è stata generosa con lei,potrebbe vendersi al migliore offerente, ma non lo fa, lotta per trovarsi un lavoro, per crescere i suoi figli, per dare loro una vita agiata ed un futuro migliore.Per fare questo si impegna nel lavoro che ha strappato al suo capo, da fondo a tutte le sue energie per scoprire cosa c'è sotto tragedie che accadono in famiglie che hanno la disgrazia di bere acque contaminate con cromo 6, un potente cancerogeno, lotta per loro ( e per se stessa) mettendo in questa lotta ogni stilla della sua energia, trascurando i figli e il suo uomo.Ecco mi sono detta i problemi delle donne, in tutto il mondo:sono sole, spesso, a crescere i figli, anche se magari hanno un uomo accanto,devono conciliare lavoro ed esigenze delle famiglia, cosa che all'uomo mai viene chiesta.Si sacrificano per rendere al meglio sul lavoro e per gestire al meglio la famiglia, ma non è facile, specie se hanno un lavoro che le impegna senza limiti di orario veri.Donne del genere rischiano di rimanere sole, come ha rischiato Erin quando il suo uomo, che pure le faceva da Baby sitter per i figli, sentendosi trascurato se ne va, non regge più un menage in cui la donna, fulcro della famiglia classica è troppo assente.Egli se na va dicendole: ora hai i soldi per pagarti una baby sitter, puoi fare a meno di me.Erin non ha abortito bambini per fare la reginetta di bellezza a lungo ed Erin, donna intelligente ed intuitiva, grande lavoratrice, ha capito che far valere le sue doti, non solo estetiche, è la più grande soddisfazione della sua vita.Erin, una donna,con i problemi veri delle VERE DONNE ci ha fatto capire molto nella giornata delle DONNE in cui, come al solito, si sono fatte solo chiacchiere vuote e propagandistiche. vero Napolitano?E allora alla fine sapete che vi dico?Vale la pena di vederlo questo film, magari si capiscono i veri problemi delle donne, anche quelle con le gonne..perchè nelle donne, oltre le gambe c'è di più, molto di più di quanto non credano le stesse femministe


giovedì 6 marzo 2008

Ferrara. La "Terra" di Joan Mirò: omaggio alla Catalogna

Quanto può pesare l'attaccamento alla terra natia per un surrealista, per un artista che cioè ha deliberatamente elevato la sfera del sogno a fonte della propria produzione iconografica? Se l'autore in questione è originario della Catalogna, quella porzione d'Europa che da secoli esalta il proprio tormentato particolarismo culturale, la risposta è facile da immaginare: immensamente. Sta tutta qui la forza della mostra "Mirò: la terra" che dal 17 febbraio al 25 maggio troverà spazio a Palazzo dei Diamanti a Ferrara.
Si tratta di una esposizione antologica molto dettagliata, organizzata da Ferrara Arte in collaborazione con il Museo Thyssen-Bornemisza di Madrid, che rilegge gli esiti più alti della carriera del Maestro di Barcellona, dalla data della sua prima personale, nel 1918, alle opere degli anni Ottanta, portando per la prima volta in Italia molti tra i suoi massimi capolavori. All'insegna di questo particolarissimo approccio critico, voluto dal curatore Tomàs Llorens, persino un artista come Joan Mirò - che negli ultimi venticinque anni ha stimolato un ricchissimo dibattito internazionale e ha offerto materia ad innumerevoli saggi - appare nuovo, addirittura inedito. Tutta l'arte di Miró è segnata infatti da un profondo attaccamento per la nativa Catalogna, per la sua gente e le sue tradizioni. Nell'esposizione il tema viene indagato nelle sue più ampie accezioni e simbologie, con opere ispirate al mondo rurale e al culto delle origini, ai temi della sessualità e della fertilità, a quelli legati alla metamorfosi, all'Aldilà e all'eterno susseguirsi di vita e morte. Sul piano formale, l'interesse di Miró nei confronti della terra si manifesta in un'esaltazione della materia e dei materiali che compongono l'opera d'arte, scelta che lo porta a raggiungere soluzioni formali originali e straordinarie, premessa fondamentale di importanti correnti del Novecento, come l'Informale americano ed europeo. La mostra esplora l'affascinante intrecciarsi di questi motivi nell'opera dell'artista catalano e ne offre una innovativa chiave di lettura. Aprono il percorso della rassegna i lavori ispirati all'ambiente rurale della località catalana di Mont-Roig, tra le quali "La contadina" del biennio ‘22-‘23, eccezionalmente concesso in prestito dal Centre Pompidou di Parigi. La tela è dominata dalla ieratica e imponente figura femminile, signora del ciclo della vita e del rito quotidiano del lavoro rurale, che partecipa in maniera originale del ritorno al classicismo degli anni Venti. La seconda sezione testimonia il contatto con l'avanguardia avvenuto a Parigi e la nascita di un nuovo tipo di paesaggio, rarefatto e metaforico, nel quale il mondo rurale di Mont-Roig è comunque evocato da lievissimi segni su fondi monocromi, che richiamano la sostanza instabile e trasparente dei sogni. Tale processo di progressiva astrazione e trasfigurazione del dato naturale inizia con "Terra arata" del Guggenheim Museum, si accentua nel "Paesaggio catalano (Il cacciatore)" del Museum of Modern Art, due opere capitali del biennio ‘23-‘24, entrambe provenienti da New York, che questa mostra offre la rara opportunità di vedere affiancate. In questo stesso periodo Mirò si concentra su una serie di dipinti che hanno come soggetto il contadino catalano. In mostra ne sono esposte due versioni: quella bellissima del Museo Thyssen-Bornemisza Madrid, con la figura sospesa su uno sfondo blu di Prussia come un'apparizione notturna, e quella altrettanto bella della National Gallery di Washington, solare e diurna, disegnata su un fondo giallo chiaro che satura ogni centimetro della composizione. Il culmine e il superamento di questa fase (segnata dall'adesione al Surrealismo) è rappresentato da dipinti dell'estate del 1927, quali "Paesaggio (La lepre)" del Guggenheim e "Paesaggio con coniglio e fiore" della National Gallery of Australia di Canberra. In queste tele di grande formato Miró rievoca una Catalogna primordiale, dando vita ad un personale mito della genesi. Raggiunto il successo, a partire dal 1928 Miró conduce una profonda riflessione sulle componenti dell'opera d'arte, il cui esito sono i collage e gli assemblaggi dei primi anni Trenta, come ad esempio l'Oggetto del MoMA, costruzione del 1931, che rappresenta la prima incursione dell'artista del campo della scultura. L'attrazione per l'elemento "terrestre" risveglia un nuovo interesse per i materiali – scelti ed associati con assoluta libertà e con raffinata ironia – che, da ora in avanti, divengono componenti fondamentali del linguaggio dell'artista. Nei dipinti della seconda metà degli anni Trenta, presentati nella sezione Figure plutoniche, Miró utilizza supporti inusuali e una tavolozza dai colori violenti e vivaci, dando vita a paesaggi che sembrano appartenere ad un altro mondo, popolati da creature misteriose. In particolare, in una importante serie di dipinti su masonite eseguiti a Mont-roig nell'estate del 1936, di cui in mostra sono per la prima volta riuniti cinque esemplari, l'artista introduce materiali come caseina, pece, sabbia e ghiaia raggiungendo un grado di espressività che precorre l'Informale. Nel 1940 il Maestro lascia la Francia e fa ritorno in Spagna. Nella sua terra trova ispirazione per un'ulteriore evoluzione: sperimenta la ceramica e torna a cimentarsi, con rinnovata audacia, nell'impiego di nuovi materiali, adottando soluzioni che rivelano un diretto rapporto con i recenti sviluppi dell'arte americana ed europea. Attestano la vitalità di un artista ormai maturo e coronato dal successo internazionale opere realizzate di getto, con macchie di colore gocciolante e con inserti in corda, come la "Composizione con corde" (1950) del Van Abbemuseum di Eindhoven, o assemblaggi che integrano materiali inconsueti, come accade nel caso della "Donna" (1946), capolavoro della Fundació Joan Miró di Barcellona, composta da un osso, una macina in pietra e un filo d'acciaio. L'ultima sezione del percorso espositivo è dedicata ai lavori realizzati, a partire dal 1956, nel nuovo atelier di Palma di Maiorca, nei quali ricorre il formato monumentale e la scelta di temi legati alla femminilità e alla sessualità nel loro carattere primordiale. La mostra si chiude con un capolavoro della tarda maturità esposto in rarissime occasioni, "Figure e uccelli nella notte" (1974) del Centre Pompidou, un immenso murale su tela dipinto con una pennellata gestuale, capace di evocare la palpitazione oscura della notte e la potenza misteriosa dei principi vitali della natura nella loro incessante trasformazione.
"Mirò: la terra"
Ferrara, Palazzo dei Diamanti
Dal 17 febbraio al 25 maggio 2008 dail sole24ore
la sede espositiva della mostra è a Palazzo dei diamanti
QUI si potranno leggere informazioni importanti su questo grande maestro catalano che esprime proprio la magia carnale della sua terra tanto vitale.E' una mostra da non perdere
QUI sono elencate le opere in catagolo.Io le trovo entusiasmanti ecco, di una bellezza intrigante e stimolante,sono quadri che colpisco l'occhio per la loro policromia inusuale e la mente.Non è di certo calligrafia quella di Mirò.E' un artista legato alla sua terra e a chi ci vive in stretto contatto e da essa trae linfa e nutrimento



martedì 4 marzo 2008

A Roma riapre la casa dell'imperatore Augusto

Roma - I risultati del lungo periodo di studio e restauro che ha visto la soprintendenza speciale per i Beni archeologici di Roma impegnata nelle costruzioni che Augusto realizzò sul Palatino, potranno essere finalmente ammirati dal pubblico il 10 marzo, quando il sito, finora escluso dal circuito di visita, aprirà alle visite.
Gli interventi effettuati
Tra gli interventi effettuati, quelli di ordine statico-strutturale e di ricomposizione e ripristino della decorazione pittorica (quest’ultimo ha interessato in particolare il nucleo della Casa di Augusto sul pendio meridionale del colle, nel tratto adiacente al tempio di Apollo Aziaco, compreso tra le Scalae Caci e le Biblioteche di Domiziano). Nell’ultimo biennio, per raggiungere l’obiettivo dell’apertura al pubblico, l’attività e le risorse finanziarie a disposizione della soprintendenza si sono concentrate essenzialmente attorno al peristilio (giardino porticato a colonne) della prima fase della Casa di Augusto, sui cui lati settentrionale e orientale si aprono i locali più rappresentativi dell’abitazione. Negli ultimi due anni sono stati stanziati fondi pari a 1.790.000 euro (1.540.000 euro per la Casa di Augusto e 250mila euro per la Casa di Livia).
I fondi raccolti Grazie a Maratonarte, iniziativa del Mibac, sarà possibile restaurare anche la «stanza delle prospettive» e alcuni ambienti adiacenti della Casa di Augusto. Per questi lavori lo stanziamento previsto è pari a circa 500mila euro. Con i fondi "Roma Capitale" riferiti alle annualità 2005-2006, la soprintendenza speciale per i Beni Archeologici di Roma potrà proseguire i restauri nella Casa di Livia, già avviati.
I lavori di restauro
I lavori di restauro della Casa di Augusto si sono focalizzati sul ripristino delle coperture di alcuni ambienti per consentire la ricollocazione degli affreschi, rinvenuti in frammenti minuti tra le terre di scavo, poi ricomposti e restaurati. Non sono mancate opere di messa in sicurezza e sistemazione dei percorsi al complesso augusteo al Palatino. Grazie all’allestimento di un percorso attraverso il peristilio, sarà possibile visitare il cosiddetto "studiolo" dell’imperatore, preziosa testimonianza del raffinato gusto decorativo augusteo e, per la prima volta nel loro aspetto originale, il "cubicolo inferiore", il grande oecus (ambiente di soggiorno e di ricevimento) e i locali della rampa e dell’antirampa con le loro splendide decorazioni.
La casa di Livia
Con l’imminente riapertura della casa di Livia (dove si è già provveduto alla copertura dell’atrio a salvaguardia degli affreschi, mentre si stanno restaurando i dipinti del tablinum e dell’ala sinistra) si realizzerà un vero e proprio museo in situ della pittura decorativa di età protoaugustea. Di recente ultimazione sono i restauri del podio di Apollo Aziaco, che hanno consentito l’identificazione di luoghi celebrati dai contemporanei, quali il portico delle Danaidi e la Biblioteca ad Apollinis, luogo dove Augusto era solito riunire il Senato. Ancora in corso i lavori per arrestare i dissesti statici che interessano il settore meridionale del complesso, lavori che hanno consentito l’identificazione del Lupercale.da ilgiornale
QUI c'è un bel video che ci mostra alcuni interni della casa.Un patrimonio da salvare e conservare che appartiene a tutti.
QUIinvece tratto dal sito dei beni culturali ci sono informazioni sui restauri e altre foto molto belle

lunedì 3 marzo 2008

E' morto il tenore Di Stefano

Milano - È morto alle 5 di questa mattina vicino a Milano il tenore Giuseppe Di Stefano. In coma dallo scorso dicembre, il famoso cantante lirico, che aveva 86 anni, era malato da tempo: la notizia dell’aggravarsi delle sue condizioni, poche settimane fa, era nota nell’ambiente della musica lirica. La notizia è stata diffusa dall’agenzia specializzata in musica classica Studio Musica. Le condizioni di salute del tenore erano peggiorate dopo il 3 dicembre del 2004, quando era rimasto gravemente ferito durante un’aggressione da parte di alcuni rapinatori, che lo avevano picchiato a morte mentre si trovava nella sua casa di Diani, in Kenya. Ricoverato all’ospedale di Mombasa, in seguito alle ferite riportate, il 7 dicembre era entrato in coma. Dopo un lungo viaggio di trasferimento verso l’Italia, era stato poi ricoverato in un ospedale di Milano. Dopo un po' le sue condizioni si erano stabilizzate, ma è rimasto infermo fino alla morte, avvenuta oggi. La sua situazione si era aggravata sotto Natale.
Il preferito dalla Callas La sua magica voce, il fraseggio perfetto e naturale insieme, il genio della sua interpretazione: tante ragioni artistiche e umane, tante doti naturali e di studio concorrono a rendere unica la personalità e la leggenda di Di Stefano. Espresse il meglio di sè come cantante lirico dagli anni ’40 fino alla metà dei ’70, periodo in cui il suo nome era anche legato artisticamente e affettivamente a quello di Maria Callas. I due avevano cantato insieme per la prima volta nel 1951 a San Paolo del Brasile, in una Traviata diretta dal maestro Tullio Serafin. Assieme alla cantante greco-americana si esibì negli anni successivi in opere e concerti, registrando anche dischi di grande valore artistico. Osannato dal pubblico, per oltre venti anni calcò i palcoscenici più famosi del mondo, formando una coppia inossidabile con la Callas. E fu ancora lui nel 1973, ad accompagnarla nell’ultimo tour intorno al mondo. Nato a Motta Sant’Anastasia (Catania) il 24 luglio, Di Stefano, detto Pippo, era figlio di un calzolaio, ex carabiniere e di una sarta
Educato in seminario dai Gesuiti, per qualche tempo meditò di abbracciare il sacerdozio, quindi debuttò nella musica leggera presentandosi con uno pseudonimo. Studiò poi con il baritono Montesanto, e subitò bruciò le tappe: prima il vero debutto lirico nel 1946 a Reggio Emilia, dove cantò la parte di Des Grieux nella Manon di Massenet; poi il medesimo ruolo alla Scala di Milano; quindi nel 1948 gli applausi del Metropolitan di New York, quale Duca di Mantova nel Rigoletto di Verdi: un ruolo che al Metropolitan tornò a interpretare per molti anni. È invece del 1957 l’esordio sul suolo britannico, dove al Festival lirico di Edinburgo, interpretò Nemorino nell’Elisir d’amore di Donizetti. Quattro anni dopo, il Covent Garden di Londra lo applaudiva nella parte di Mario Cavaradossi nella pucciniana Tosca.
Dotato di una voce chiara, di una spiccata sensibilità interpretativa e di un’innata simpatia, potè rivestire interpretare con successo oltre cento ruoli da protagonista in un ampio repertorio: dal lirico puro dei primi anni, come Des Grieux nella Manon di Massenet o Arturo nei Puritani di Bellini; fino al repertorio lirico drammatico, come Cavaradossi nella Tosca di Puccini, Don Alvaro nella Forza del Destino di Verdi, Calaf nella Turandot di Puccini o lo Chenier in Andrea Chenier di Umberto Giordano. Notevole la sua discografia, sempre diretto dai principali direttori dell’epoca, Victor De Sabata, Tullio Serafin, Antonino Votto, fino a Herbert Von Karajan.
Ma il meglio lo dava nel caldo rapporto diretto con il pubblico. La generosità del temperamento lo portò ad includere in repertorio opere che non si addicevano del tutto alla sua vocalità. Con generosità, dalla metà degli anni Settanta in poi si dedicò a master e seminari per giovani artisti, come quello a Spoleto, nel 1975, quando per i vincitori del Concorso Nazionale di canto, A. Belli, firmò anche la regia della Bohème di Puccini. dailgiornale
Sul sito ufficiale dell'artista è stata annunziata in modo molto elegante e sobrio la sua morte
Se ne è andato un grandissimo della musica lirica, una grande presenza scenica, uan grandissima voce , potente , ma allo stesso tempo calda, capace di emozionare come poche.Non a caso era il tenore preferito della Callas, anch'essa un soprano unico ed indimenticabile.Non era famoso ai livelli di Pavarotti ,che era un tenore amatissimo dalle folle e dai media perchè aveva piacere di interpretare canzoni popolari e del vasto repertorio napoletano in concerti stile star del pop, ma era lo stesso una grandissima e purissima voce, un grande interpetre anche delle immoretali canzoni del grande repertorio napoletano.Ora ha raggiunto l'amica Maria nel parnaso delle grandi stelle della lirica: che gli sia lieve la terra.
Nei filmati riporto una sua grande interpretazione di E lucean le stelle, brano da pelle d'oca , un duetto con la Callas. (o soave fanciulla), il famoso , eccezionale suo Core 'nrato e , dulcis in fundo,NESSUN DORMA.Certe voci non muoiono mai..









domenica 2 marzo 2008

Anna Magnani: un animale da spettacolo ineguagliabile

Antidiva per eccellenza, Anna Magnani è stata una figura chiave del neorealismo italiano, interpretando con stile inimitabile il personaggio della popolana focosa e sboccata, ma allo stesso tempo sensibile e generosa, incarnazione dei valori genuini di un'Italia minore.Il resto si può leggere qui.
Questa Estate, su Sky ho visto molti suoi film, da quelli più famosi a quelli meno famosi.Certamente la sua interpretazione in Roma Città aperta è grandiosa in quanto mostra che eccezionale ed ineguagliabile animale da spettacolo fosse.Ma anche nel film Nella città l'inferno era bravissima.Non esiste paragone tra lei e le cosiddette attrici italiane attuali.Anna aveva un grande temperamento, aveva un carattere difficile come tutti i purosangue, ma ha incarnato benissimo le donne dei suoi anni: forti, volitive, capaci di grandi sacrifici, madri, mogli e amanti , capaci di difendere se stesse e la loro famiglia con le unghie e con i denti.Era una popolana de core , vera e ruspante e la gente l'amava molto per questo, ecco perchè ho voluto ricordarla con più post.Un omaggio dovuto..guardatela..







Anna Magnani che canta il dolore delle donne..

che hanno un uomo al fronte, in guerra, in tutte le guerre.Anna ha dato anima ad una canzone struggente e dolente che non è la marcetta che si crede:ecco come canta, con cuore straziato e sprizzando amore e dolore da ogni parola,'o surdato 'nnamurato..Dedicata a chi ho offerto la sua vita sul Carso , in tutte le guerre e alle loro vedove inconsolabili.

sabato 1 marzo 2008

Ricordando Anna Magnani


Era, come oggi, una serata da festival, ma ai tempi, grazie al cielo, Sanremo durava solo tre giorni. Il giovane Alberto Sordi era stato invitato, tra i tanti, a casa di Anna Magnani, in via degli Astalli. «Mi scusi se non sarò disinvolto davanti a lei, capisce... » abbozzò lui. Lei lo guardò, fece una smorfia e disse, squadrandolo da capo a piedi: «Annamo bene, se t’emozioni davanti a Cappuccetto Rosso; allora se io fossi il lupo, te la saresti fatta addosso». Ma già la sera dopo lo guardò muta per sussurrargli in tutta dolcezza: «Ma che, ci hai l’occhi celesti?». Questa era Anna Magnani, una donna dalle passioni travolgenti e dalle collere irrefrenabili, capace di trasformare l’allegria più sfrenata in un improvviso attacco di malinconia. Lo racconta benissimo Giancarlo Governi nel suo dolceamaro Nannarella - Il romanzo di Anna Magnani (minimum fax, 231 pagine), in uscita proprio per il centenario della nascita (7 marzo 1908) della più grande attrice del cinema italiano. Con tante scuse alle altre che pensavano (o pensano) di aver diritto al titolo.
A proposito, Anna Magnani era nata a Roma, mica in Egitto, come riporta ancora qualche sacro testo e sosteneva con calore l’amica e collega Marisa Merlini: «Un fascino da zingara, due occhi magnetici da egiziana... perché lei, lo sa? Era nata ad Alessandria d’Egitto». Balle, esclusi fascino e occhi. E quanto ci teneva Nannarella a rimarcare le sue origini, come fece in un’intervista a Oriana Fallaci: «Sostengono che sono nata da padre egiziano in Egitto. Ma io sono nata a Roma, da madre romagnola e padre calabrese, se non ci crede le do il certificato di nascita, in Egitto mia madre ci andò dopo che m’ebbe avuta. Aveva diciott’anni, non era sposata e a quell’epoca era uno scandalo, così andò in Egitto e io restai con la nonna: qui a Roma». Infatti, spiega Governi, la bambina di cognome si chiama Magnani, come la mamma, la nonna, le zie Dora, Maria, Olga, Rina e Italia, più, unico maschio, lo zio Romano. Come dire molte mamme e un papàLa bambina scalpitava e, già cresciutella, si iscrisse all’Accademia di Santa Cecilia, dove fu notata dal critico teatrale Silvio d’Amico, mica uno qualunque: «Ieri è venuta una ragazzina, piccola, mora, con gli occhi espressivi. Non recita, vive le parti che le vengono affidate: è già un’attrice, la scuola non può insegnarle molto di più di quello che ha già dentro di sé». Un ritratto che equivaleva a una sentenza da intenditore.

Nella sua prima compagnia teatrale, era l’autunno del ’25, la paga era di 25 lire al giorno. Passabile, per una sola battuta: «La cena è servita!». Poi il salto verso l’alto, la copratogonista che si sposa da un giorno all’altro, e Nannarella promossa sul campo da un altro signore dalla vista lunga, Dario Niccodemi. Fino alla consacrazione, sul palcoscenico con i fratelli De Rege, che a nominarli oggi sono quelli di «Vieni avanti, cretino!», ma in quel 1934 erano fior di attori. Nel mondo fracassone della rivista Anna Magnani si ritrova a meraviglia, fermi restando i saliscendi un umore inspiegabilmente ballerino. Dal teatro al cinema, il passo, su quelle gambe magre (e i seni prosperosi), è breve (l’esordio con La cieca di Sorrento è anch’esso del ’34). Seguono operine da quattro soldi, in tutti i sensi, fino a Teresa Venerdì (siamo nel ’43) di Vittorio De Sica e di molti gradini più su. E fino al magnifico Roma città aperta di due anni dopo, diretto da Roberto Rossellini.

Rossellini, il terzo grande amore di Nannarella. Il primo era stato un altro regista, di minor talento, ma di identico fascino, Goffredo Alessandrini. Che pure la preferiva teatrante: «La tua vera strada è il palcoscenico. Al cinema più che bravura ci vuole fotogenia e tu non sei fotogenica». Un marito, Alessandrini, che non era un modello di fedeltà. E che non le diede il figlio tanto desiderato. Così, dopo mille burrasche e altrettante riconciliazioni, ci fu, inevitabile, la separazione. Soffrì Nannarella, ma non troppo, se si bada al calendario. Perché nel 1940 conobbe Massimo Serato, un attore veneto di nove anni più giovane, di cui lei si innamorò perdutamente. Ma che non riusciva a sopportare le sue terribili scenate di gelosia. Scenate, come ricorda Governi, inesauribile miniera di aneddoti, che trascinavano nella loro casa amici come Ercole Patti o Ferdinando Poggioli, «che venivano come se andassero a uno spettacolo, sperando di assistere a una delle nostre memorabili litigate». Però Serato ebbe il merito di dare, nel ’42, alla Magnani un figlio, l’amatissimo Luca. «Quando si accorse di aspettare Luca - confidò poi Serato - Anna interruppe immediatamente il lavoro. Sembrava impazzita. Concentrò tutto il suo interesse e le sue speranze sul figlio che doveva nascere». Ma in una triste sera del ’44, mentre era in scena a Roma con Totò, una coppia che mandava il pubblico in delirio («un gioco continuo a prevaricarsi, a emularsi nell’improvvisazione, a rubarsi la battuta»), il bambino fu colpito dalla paralisi. Una malattia che sconvolse la madre e incrinò l’ormai vacillante rapporto con Serato. Racconta De Sica: «La vita, questa sua vita infelice, colma di dolori, di dispiaceri intimi, i suoi uomini, il figlio malato, l’aveva resa diffidente, sospettosa... Non era una donna facile, Anna. Con lei dopo la quiete dovevi sempre aspettarti la tempesta».

Come ben sa il bugiardissimo Rossellini, che pur stando con Nannarella, aveva preso una cotta irreversibile per Ingrid Bergman, la bionda contro la bruna, proprio come a Sanremo. Anche con in tasca il fresco telegramma della valchiria in arrivo, Rossellini negava, negava. E alla fine si ritrovò con una montagna di spaghetti al pomodoro in testa. Davanti all’intera troupe di Il miracolo. Questa era Anna Magnani, che vinse un Oscar e morì di cancro di Massimo Bertarelli da ilgiornale