sabato 9 agosto 2008

Praga 1968, ecco ciò che Eco non ha visto

Tre giorni fa a Cortina, Enzo Bettiza, autore del recente La primavera di Praga. 1968 (Mondadori) ha dato il via a una rovente polemica con Umberto Eco. Secondo Bettiza «a Eco non importava nulla degli studenti e dei lavoratori di Praga: a lui importava solo che il blocco sovietico rimanesse compatto». Eco ha prontamente smentito ma ieri, sulle pagine de Il Giornale abbiamo presentato ampi stralci del suo reportage da Praga, pubblicato su l’Espresso del 1º settembre 1968, che dimostrano una certa «timidezza» nel prendere posizione verso gli occupanti sovietici e le loro atrocità.
Nell’agosto del 1968 Josef Koudelka rientrò in Cecoslovacchia dalla Romania, dove era andato a fotografare gli zingari. Studi di ingegneria aeronautica alle spalle, un’attività di free-lance come fotografo teatrale di scena, erano sei anni che il trentenne Josef si interessava ai Gitani e al loro mondo, sognava di farci un libro, di fissare sulla carta un modo di essere e di esistere.
Era un romantico, Koudelka, non gli piaceva la realtà del proprio tempo, inseguiva l’utopia di una vita difficile e però piena, minacciata e però libera. Con negli occhi le immagini dei carri nomadi, di colpo si ritrovò davanti quelle dei carri armati del Patto di Varsavia e di una nazione, la sua, invasa, umiliata e offesa, piena di rabbia, ma impossibilitata a reagire, costretta a subire... La «primavera di Praga» moriva così, in un’estate grigia e umida di quarant’anni fa e per un giovane fotografo che non amava la cronaca e disprezzava l’attualità quelle sarebbero potute essere, dovute essere, giornate in cui chiudersi in casa a sviluppare «l’altro» universo onirico e reale che così tanto e così a lungo lo aveva stregato. E invece Josef Koudelka scese per strada e continuò per giorni a girare e a fotografare: la repressione e la ribellione, i cortei e i blindati, i praghesi e i soldati russi, l’agonia di un’utopia...
Come un orso infastidito, con una zampata l’Urss aveva fatto volare via ogni speranza e ora si limitava a starsene lì, una presenza che non aveva neppure bisogno di agire. Non che non ci fossero stati anche i morti, un centinaio circa, o i feriti, un migliaio, ma nella patria di Kafka niente era come sembrava e tutto aveva una sua logica paradossale: eri invaso da un Paese «fratello» e alleato, ma era per il tuo bene, dicevano, e poi, sosteneva ancora l’invasore, glielo avevi chiesto tu... Eri uno Stato socialista e continuavi a ritenerti tale, ma dietro quello slogan del «socialismo dal volto umano» il «socialismo reale», quello vero, vedeva un volto che non gli piaceva, e quindi... Continuavi ad avere un presidente della Repubblica, Svoboda (che in ceco vuol dire «libertà»), il quale andava a Mosca, sua sponte, per trattare, ma a Mosca c’era già il tuo presidente del Consiglio, Dubcek, e l’avevano portato lì con la forza, e insomma era «in viaggio d’affari», come raccontavano le madri ai loro figli piccoli quando i padri finivano dentro per colpa della politica... Lungo i muri di Praga, fra le tante scritte che Koudelka fotografò, una diceva: «Lenin svegliati! Breznev è diventato pazzo!». Il problema era che la «pazzia» del secondo era perfettamente in linea con la supposta normalità del primo e se vent’anni di indottrinamento postbellico avevano reso possibile l’equivoco, dopo non sarebbe stato più così e il ’68 praghese è da questo punto di vista una sorta di spartiacque non solo politico, ma anche ideologico. Il comunismo morì allora, nella sua impossibilità a riformarsi e a rifondarsi. Altre scritte erano più semplicemente beffarde, rabbiosamente ironiche. «Abbiamo cacato sull’Occidente ed è dall’Oriente che la merda ci è ricaduta addosso. È la prova della sfericità della terra». «Prodotti d’esportazione sovietica: carri armati, piombo, morte». «Proletari di tutto il mondo, andatevene!». «Con l’Unione Sovietica per l’eternità. Al cimitero». «Non ci si può sedere sulle baionette»... Non campeggiavano solo sui muri, ornavano le vetrine dei bar e i finestrini dei tram, riapparivano sotto forma di volantini, all’interno di numeri unici di quotidiani e riviste: sintetizzate graficamente, una stella a cinque punte comunista trasformata in svastica nazista, un «go home» scritto con il gesso finivano addirittura sui cingolati sovietici... Già, perché l’occupazione di una città era anche questo, come con puntiglio da entomologo Koudelka fotografò: il tank e i cittadini, le baionette inastate e la folla che le fronteggia, le finestre di un palazzo andate in pezzi per una sparatoria dimostrativa e i feriti dalle schegge che vengono soccorsi... Delle centinaia di foto scattate, una piccola parte trovò, qualche mese dopo, la via dell’Occidente.
Nel ’69 l’Agenzia Magnum, in occasione del primo anniversario dell’invasione, le rese pubbliche: «Fotografo cecoslovacco anonimo» diceva il credit che sostituiva la firma: Koudelka viveva ancora a Praga, così come la sua famiglia, svelarne l’identità significava spalancargli la porta della galera. Quell’anno, comunque, vinse il premio Robert Capa della Overseas Press Club.... Nel ’70, grazie ai suoi Gitani, Josef su invito proprio della Magnum andò in Germania Occidentale a fotografarli e in Cecoslovacchia non tornò più. A metà degli anni Ottanta, i genitori ormai morti, rivendicò pubblicamente quei cliché nel corso della sua prima grande mostra alla Hayward Gallery di Londra, ma dovrà cadere il Muro di Berlino perché i praghesi possano vederle in patria, a ventitrè anni di distanza da quando furono scattate.
Il libro che ora le raccoglie, insieme con molte altre rimaste finora inedite, per un totale di 250, si chiama, semplicemente, Invasione Praga 68 (Contrasto-Forma editore) e sono struggenti perché si capisce che il fotografo non è solo uno spettatore o un testimone degli eventi, ma ne fa parte, è una delle migliaia di cittadini indignati e affranti, sconfitti ma non vinti che affollano le strade, agitano le bandiere, marciano nei cortei, fronteggiano i carri armati, lividi di rabbia e di paura, gli occhi lucidi, il volto teso. Koudelka è, appunto, uno di loro. Un ragazzo di Praga.di Stenio Solinas da ilgiornale
Quello che si può dire con certezza è che in altri frangenti Eco non è affatto "timido" ergo è il solito intellettual-radical-chic che dove vede ( si fa per dire..) e dove "ceca" .E allora la facciamo una colletta per donargli un bel pastore tedesco, cane guida per "cecati"?
E dire che in quell'occasione fu stroncata in modo arrogante e "padronale", roba da satrapi persiani,quella che veniva poeticamente definita " LA PRIMAVERA DI PRAGA.E dire che, ancora oggi a vedere il punto in cui di diede fuoco Ian Palach , uno degli eroi di quella rivoluzione, si prova un'emozione intensa ed una grande reverenza per un martire della libertà, LIBERTA' , parola sconosciuta nella sua reale essenza a troppa presunta intellighentia SINISTRA , senza vergogna, nè pudore

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